Nel 1998 Festen fu il primo e implacabile film aderente al famigerato Dogma 95. La storia di quel movimento si è conclusa già da parecchi anni e lo stesso Vinterberg dopo averne sottoscritto il manifesto con Lars von Trier non ha mai dato l’idea di esserne un seguace rigorosissimo. Nel corso della sua carriera del resto il regista danese ha lavorato ad una filmografia policroma e discordante e non si è mai risparmiato collaborazioni stravaganti ed estemporanee come quelle con i Metallica, a cui forse ha realizzato il peggior video della loro già orribile storia recente.

Saltata del tutto la distribuzione in Italia di Submarino – la trasposizione cinematografica dell’aghiacciante romanzo omonimo di Jonas T. Bengtsson – ci riavviciniamo a Vinterberg direttamente con Il Sospetto, una prova che sia per la forma, lo stile e i temi trattati non ha paura di confrontarsi con l’austerità e i toni solidi e severi degli esordi.

Proprio come in Festen qui il regista affronta a volto scoperto e in maniera viscerale una vicenda sulla pedofilia. L’argomento è così delicato ed è talmente chiara la traccia che l’autore vuole imporre a tutta la storia che alla fine è difficile elaborare una visione che prescinda da una specie di rancore cieco contro tutti i personaggi che accusano ingiustamente il protagonista, lo splendido Mads Mikkelsen. Fortunatamente il talento di Vinterberg non si assesta solo sul processo narrativo volto a mostrare l’innocenza di Lucas. Oltre a infrangere e ridiscutere l’orribile e infamante lettera scarlatta che la società ha issato sul presunto pedofilo, Vintenberg studia abilmente anche temi più ampi come il modo in cui la natura virale del pensiero e l’identità tendono a formarsi, specie nei confini labili e intrecciati di una piccola cittadina di campagna.

A pochi giorni dalla visione incrociata di Tutto parla di te di Alina Marazzi al Festival di Roma, con Il sospetto siamo di nuovo riassorbiti in una prospettiva che filma il lato più oscuro nel processo di immedesimazione forzata nel ruolo del genitore. Se la regista milanese ha trattato a senso unico e forse in modo un pò piatto la depressione materna nella delicata fase post parto, Vinterberg elabora in maniera più complessa alcune dinamiche di quel tipo di istinto protettivo ottuso che a volte lega padri e figli.  Se il film avesse proseguito nella direzione di sollevare interrogativi profondi su alcune certezze laiche della società danese avrebbe potuto imporsi come il proseguimento ideale dell’ottimo Festen. Vintenberg però sembra rinunciare del tutto ad un eventuale confronto con lo spettatore per rintanarsi nella strada più facile che quasi sempre coincide in una sorta di cedimento asservito al talento di Mikkelsen, premiato per questo ruolo come migliore attore al Festival di Cannes, e in possesso ormai di una spina dorsale rampicante e spinosa come quella di Christopher Walken.

Tornati a casa non abbiamo resistito a rivedere subito Le mele di Adamo e Le luci intermittenti.

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