[**12] – Il riccio rappresenta l’esordio alla regia di Mona Achache, la quale scrive anche la sceneggiatura, caratterizzandola di espedienti narrativi che sottolineano la sua creatività e padronanza del mezzo. Il film è tratto dal romanzo “L’eleganza del riccio” di Muriel Barbery (edito in Italia da E/O) che ha ottenuto un notevole successo in Francia. La regista e sceneggiatrice ha elaborato e ampliato alcuni elementi presenti nel libro.

Parigi. In un elegante palazzo borghese abita Paloma, una dodicenne intelligente e brillante, fin troppo sveglia, che ha deciso di interrompere la sua vita, il giorno del suo compleanno. La ragazzina vede la vita delle persone che la circondano come se fossero dei pesci rossi in una boccia di vetro, in cui passano l’esistenza a scontrarsi. La portinaia del palazzo, Renée, è una persona che passa inosservata, dall’aspetto sciatto e trasandato, che nasconde però una cultura da autodidatta. Queste due figure si conoscono grazie al nuovo inquilino Monsieur Kakuro Ozu, che si accorge della loro vitalità nascosta. L’affetto reciproco che si doneranno, le riporterà a sbocciare nuovamente alla vita.

Mona Achache ha ottenuto i diritti del romanzo prima che esplodesse l’entusiasmo dei lettori. Mentre scriveva la sceneggiatura si è imposta di non ascoltare alcun commento a riguardo per non esserne influenzata. La scelta di questo romanzo è stata del tutto casuale: un giorno si è trovata a leggere il quarto di copertina, che l’ha subito colpita. Nel suo film, la Achache ha voluto delineare delle tematiche sempre attuali e che fanno parte della vita di ognuno, mettendo in scena un ventaglio variegato di caratteri e stati d’animo autentici e visibili nella realtà di ogni giorno. Gli spettatori hanno la possibilità di identificarsi nell’uno o nell’altro personaggio. Ciò che la regista vuol fare emergere dal film è la magia degli incontri improbabili e come siano assurdi i pregiudizi. Renée è apparentemente una persona ruvida, brusca, che non si cura del suo fisico, dei suoi capelli, del suo abbigliamento, ma nutre la sua anima intellettuale, giorno dopo giorno. Ha messo insieme una vera biblioteca nella stanza in fondo all’appartamento, che tiene sempre chiusa, lontana da sguardi indiscreti. La donna adora l’arte, la filosofia, la letteratura, la cultura giapponese e lascia che gli altri mantengano il loro giudizio legato al cliché, per nulla interessati all’essere umano che quotidianamente si trovano di fronte. Oggi le persone difficilmente si soffermano a guardarsi intorno per comprendere veramente l’individuo che incrociano migliaia di volte nella loro vita, quella corsa continua che è la nostra vita rende gli altri invisibili al nostro sguardo.

 Kakuro Ozu si rivela diverso, coglie la gentilezza d’animo di Renée, da piccoli gesti, ed è curioso e interessato nel conoscerla più profondamente; è un uomo elegante, gentile, rispettoso, un intellettuale. La regista ha voluto che rimanesse il più enigmatico possibile, anche lui un personaggio inconsueto come Renée e Paloma: tre solitudini che si danno calore l’un l’altra. Tuttavia Kakuro è il mezzo che scuote le due donne dal riccio nel quale si sono rinchiuse. Il film è un alternarsi costante tra il punto di vista di Paloma e quello di Renée, senza che uno dei due prevalga nel corso del racconto. Mona Achache è stata dietro ad ogni dettaglio, aveva un’idea ben precisa di come rendere i personaggi del libro. Nel romanzo Paloma scrive un diario, nel film la regista ha scelto che la ragazzina utilizzasse i disegni e una cinepresa, pensando che questi strumenti traducessero lo stesso spirito della poesia che traspare nel romanzo. Il film gioca molto su elementi fortemente materiali e visivi (la tappezzeria, la carta, l’inchiostro, gli oggetti presenti nella camera di Paloma), evitando così il rischio di un’abbondanza eccessiva di parole.

Una componente, solamente accennata nel libro, qui diventa un personaggio con un suo ruolo specifico: il pesce rosso che Paloma filma con la stessa cura con cui osserva le persone. Gli dà anche una pillola per assistere a cosa succede: credendolo morto lo butta nel gabinetto. In realtà il pesciolino ricompare vivo in casa di Renée. La regista ha voluto mostrare la morbosità che hanno a volte i bambini, ma soprattutto il pesce raffigura la rinascita e la ripresa della voglia di vivere di Paloma.

Achache ha messo molta cura nella creazione dell’ambientazione, la regista concentra la storia all’interno del palazzo “come in un immenso vaso” nel 2009, ma senza che si scorgano cellulari, computer o altri oggetti che lo colleghino al resto del mondo. Voleva che fosse un ambiente senza tempo, reale ma con un tocco di fantasia, come fosse sospeso. I costumi rivestono un aspetto importante soprattutto nell’evoluzione di Renée, che poco a poco riscopre la sua femminilità, il suo essere elegante e sensuale. Dagli abiti ordinari e spenti si passa ad un tailleur pantalone che valorizza la sua figura e la sua personalità. Gli attori sono stati straordinari nel dare corpo a tre solitudini, a tre individui che la società non vede per quelli che sono, dotati di un’enorme sensibilità. Josiane Balasko ha saputo rendere con naturalezza il doppio volto di Renée e la sua trasformazione si legge prima di tutto attraverso gli occhi. Il riccio è un film delicato, che pone in primo piano l’animo dei suoi personaggi, sottolineando quanto spesso non si conosca la persona che si ha accanto nonostante si passi molto tempo insieme. L’idea che ci si fa di una persona rimane quella, solo perché non c’è la voglia di confutare il primo giudizio e c’è l’arroganza di inquadrarla solo dall’aspetto, dal “riccio” che ognuno di noi possiede.

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2 commenti su “Il riccio diventa un film

  1. bellissimo film, avevo letto il libro e nonostante la scrittrice non lo trovasse rispondente ad esso, io al contrario li trovo entrambi magici.Le interpretazioni dei tre protagonisti principali sono perfette.

  2. In realtà la regista si è scagliata contro la distribuzione che ha tolto dai manifetsi dei film la dicitura “liberamente tratto”, come se film e libro fossero al stesa cosa. Personalmente mi sembra che la regista abbia saputo ben trasfromare in immagini le parole di un diario e rendere appieno l’atmosfera del libro.

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