“C’è una cosa molto importante che noi dobbiamo fare il prima possibile….scopare” . Un frase carica di aspettative nel suo incipit che si chiude con una livida e scarna sintesi nella parola che evoca l’eros nella sua declinazione più oscena, diretta e concreta. Sono le parole che Nicole Kidman rivolge a Tom Cruise nel finale del labirintico, ossessionante e misterioso Eyes Wide Shut, il monolite cinematografico conclusivo e più anomalo tra i viaggi stellari di Stanley Kubrick, che morì senza vederlo terminato. E tale finale tanto secco e disturbante è diventato un po’ la metafora di una serie di “finali” collegati a quel film: il capitolo finale di Kubrick uomo e cineasta, ma anche della coppia Cruise-Kidman che evidentemente deve aver fatto proprie alcune profonde istanze e crisi già contenute nel Doppio sogno di Arthur Schnitzler, il testo letterario da cui questo doloroso e sensuale valzer di coppia si ispirava come riflessione sul desiderio e sull’irresistibile e avvolgente parte oscura che a volte l’alimenta.

Mi piace pensare che Il mio re ne riprenda dal punto là dove Eyes Wide Shut terminava, da quella lividezza e fisicità o, meglio, da quel bisogno di dare una cornice più concreta e reale alla dimensione fantastica e straniante in cui Tom e Nicole si erano esposti e messi a “nudo” , magari con la mente e con il cuore ancora prima che con il corpo. Nel film della regista francese Maiwenn, un nome che già a pensarlo e a pronunciarlo rimanda a derive, contaminazioni, sbandamenti, è già accaduto tutto nel momento in cui la protagonista Tony prende di petto un pista da sci e si rompe una gamba, con lo stesso temperamento, tra lo spavaldo e l’autodistruttivo, con cui in seguito scopriremo ha vissuto e consumato la storia dell’amore della sua vita con Georgio(altro nome dal peso e dal suono “specifici”).

Ecco, potremmo dire che Tony e Georgio sono entrati direttamente nella dimensione dello “scopare” che si augurava la Kidman e questo accade fin dal primo incontro: quel gesto di schizzarsi addosso l’acqua con le dita della mano, un contatto impudico, provocatorio, un invito concreto a riconoscersi e a delimitare un territorio , a dirci “ci apparteniamo”. Il centro della sguardo cinematografico disinibito e schietto di Maiwenn sembra essere proprio la “vagina” aperta come un squarcio dentro cui entra la storia dei due amanti e proprio lei , durante il loro primo incontro carnale, si preoccuperà appunto di essere troppo “aperta” , riconoscendo, a partire dalla propria sessualità, l’incapacità di mettere un confine a quanto e a come lui possa penetrarla, invaderla e renderla succube e ossessionata dalla sua presenza e dalla più frequenti assenze. Recentemente ho visto un documentario sulla lavorazione di Giulietta degli spiriti in cui Fellini, interrogato sulla sua presunta misoginia, sosteneva che i personaggi femminili erano per lui la proiezione della parte oscura degli uomini e che quindi avevano in sé qualcosa di mostruoso e al tempo stesso irresistibile. A un certo punto sembra che Tony voglia identificarsi completamente con quest’idea di femminile oscuro, morboso, auto ed etero distruttivo, come se fosse l’unico modo possibile per tenere legato a sé lo sfuggente e ambivalente Georgio, incurante della ripetitiva e quotidiana progettualità della vita di coppia, tutto concentrato sul momento, sul tempo dell’adesso, negando completamente e quindi alimentando la sete di assolutezza ed esclusività che la sua donna richiede con forza annichilente, vinta e sfiancata eppure tenace nell’attaccamento al dolore come una Medea implosa nel suo proposito di sangue e vendetta.

Il mio re racconta tale sfinimento con una franchezza e un’onesta che a volte commuovono e a volte irritano per l’esposizione del narcisismo esasperato in cui entrambi i personaggi si chiudono e si barricano, facendosi una guerra lunga e lenta, una battaglia di sbalzi d’umore, di promesse mancate, di accelerazione e regressioni, di polarità tra disperazione ed euforia, senso di famiglia e solitudine, furia e tenerezza. Certo, le dinamiche di una coppia disfunzionale che tante volte sono state rappresentate, messe in immagini e corpi attoriali. Qui però c’è proprio la sensazione di essere tirati dentro un processo trasformativo che con intelligenza Maiwenn focalizza sul personaggio femminile, quello convenzionalmente, culturalmente e sistematicamente più portato alla dipendenza, la cui emancipazione si esplica nell’interrompere l’identificazione con la donna isterica, che rivendica lo spazio di una vita insieme salvo poi distruggerlo e aggirarsi disperata e ancora famelica sulla carcassa di un desiderio imputridito e nauseabondo, l’incantesimo infranto di ogni romanticismo e di qualsiasi aspirazione di assoluto, di altrove. LEGA-ME-NTO, l’esercizio di spelling che la psicologa della clinica riabilitativa fa fare a Tony, portandola a vedere attraverso le parole la richiesta di dipendenza(LEGA-ME) e la gabbia del corpo e del cuore nel quale aveva scelto di rinchiudersi, offrendone la chiave a un riluttante carceriere come Georgio. Il ritorno alla vita di Tony nell’immobilità del corpo e nel dilatamento del tempo che, sempre e comunque, è collegato ad una situazione concreta e presente (la riabilitazione del ginocchio frantumato) viene accompagnato in montaggio parallelo, con un uso assai magistrale per semplicità e precisione, alla chirurgica descrizione della disintegrazione psichica ed emotiva della storia con Georgio e Maiwenn ben rifiuta di prendere parti o di cercare facili identificazioni nello spettatore, o meglio, nella spettatrice con la “povera” donna illusa e disillusa dal maschio vitellone. Il viaggio all’inferno e ritorno di Tony si fa toccante, etico e dignitoso richiamo alla responsabilità individuale, l’apertura vaginale non più come ingresso da invadere ed abusare, bensì come possibilità di accesso, lasciando però ben visibili le indicazioni per l’uscita.

“Non abbiamo fatto altro che cercare di sopraffarci l’un l’altro, facendoci molto male”- “Si chiama matrimonio”.

Questo caustico scambio di battute tra Ben Affleck e Rosamund Pike nel finale di L’amore bugiardo, altra lucida e spietata analisi sui rapporti di forza all’interno della coppia camuffata da thriller e da commedia nera, ricordo che aveva provocato una risata di disagio negli spettatori, come se al fondo del sarcasmo ci fosse la reale paura che tutti tendiamo ad identificarci con uno schema sado-masochista quando si parla di coppia ufficializzata ed istituzionalizzata. Il finale de Il mio re, al contrario, lascia un sorriso nella possibilità di uno sguardo di compassione e tenerezza tra un uomo e una donna che pure sono stati capaci di farsi tanto male. E quando Georgio se ne va e la macchina rimane sull’espressione quieta di Tony, mi sono passati per la testa i versi di Paul Valery:

“Si alza il vento, dobbiamo provare a vivere….”

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