Politicamente, troppo, corretto e curiosamente eclettico, il Palmares di questa 63ma edizione della Berlinale è, s’intuisce, frutto di un difficile compromesso fra sensibilità, interessi, visioni estetiche e gusti alquanto divergenti. Queste sono in generale le regole del gioco ma a volte, miracolosamente, uno spirito visionario, libero da considerazioni secondarie, soffia sulle giurie dei grandi festival decretando vincitori dei film destinati a diventare in seguito delle pietre miliari. Evidentemente una giuria non può far sorgere dei capolavori dal nulla; ciononostante, nel quadro di una competizione nell’insieme mediocre, come quella della Berlinale di quest’anno, le scelte possono essere più o meno felici.

Presieduta da Wong Kar Wai, la giuria sembra avere penato a trovare un giusto equilibrio fra criteri estetici da un lato e rivendicazioni socio-politiche dall’altro, privilegiando queste ultime a scapito delle qualità puramente artistiche dei film. Quasi a sottolineare questo stato di disorientamento, durante tutta la cerimonia della premiazione, i proiettori del Berlinale Palast, sono rimasti, a causa di un increscioso errore d’installazione, puntati direttamente sugli occhi del pubblico. Chi scrive ha seguito lo spettacolo con una mano davanti al volto, cercando di rubare qualche momento prezioso alla luce accecante. Sul palcoscenico la presentazione è stata spigliata ed efficiente come d’abitudine; non sono mancati neppure quei piccoli incidenti di percorso che rendono saporiti questo tipo di eventi come il momento in cui il regista tedesco Andreas Dresen, incaricato di dare il premio d’interpretazione femminile a Paolina Garcia, ha messo per sbaglio un piede sullo strascico del suo abito da sera bloccandola, fra le risate generali, proprio nel bel mezzo del palcoscenico.

Vincitore della 63esima Berlinale è stato decretato A child’s pose, del rumeno Calin Peter Netzer, un dramma psicologico a sfondo sociale centrato sul rapporto ossessivo di una madre sessantenne per il suo figlio unico. La trama segue gli intrighi della donna per salvare il figlio che, nel corso di un sorpasso, ha involontariamente investito ed ucciso un ragazzino. Interpretato da un cast di ottimi attori, superbamente capeggiato dalla sua protagonista, Luminita Gheorghiu, intensa e senza mezze misure, A child’s pose conta su una sceneggiatura solida che sa condurci, con un crescendo impercettibile, verso un finale a sorpresa. Nonostante un uso della macchina da presa alquanto capriccioso A child’s pose può essere considerato come un vincitore degno, corretto, anche se, a conti fatti, alquanto convenzionale. La troupe del film, salita sul palco al momento della premiazione, è stata ampiamente dominata dall’intervento della produttrice Ada Solomon che ha sottolineato le enormi difficoltà incontrate nel finanziare il progetto, esortando le istituzioni del suo paese a  riconoscere finalmente il valore del cinema rumeno e a volerlo appoggiare di conseguenza. Ada Solomon ha poi concluso ringraziando tutti gli sponsor ed in special modo coloro che si sono rifiutati di finanziare il film perché è stato proprio grazie a loro, ha aggiunto, che è riuscita a trovare la determinazione necessaria per realizzarlo.

Sconcertante ed alquanto incomprensibile resta la decisione di attribuire ben due premi  a An Episode In The Life Of An Iron Picker del bosniaco Danis Tanovic: il Gran premio della giuria, secondo per importanza all’Orso d’Oro, ed il premio d’interpretazione maschile, conferito all’attore non professionista Nazif Mujic che interpreta se stesso nel film.  An Episode In The Life Of An Iron Picker, è la ricostruzione documentaria di un fatto di cronaca reale. Il film ci narra l’epopea di una coppia Rom che si confronta con il rifiuto disumano degli ospedali di operare d’urgenza la donna perché priva di libretto sanitario. Questo progetto filmato, a detta del regista stesso, nell’urgenza, é un atto di ribellione e di protesta, una reazione istintiva ed istantanea di fronte all’ingiustizia subita da Nazif e Senada, i veri protagonisti della vicenda. Girato praticamente senza budget in una decina di giorni sui luoghi reali, con Nazif e Senada nei propri ruoli, An Episode In The Life Of An Iron Picker, non è sprovvisto di una sua grazia mesta e commovente resta però, pur sempre, un film fragile, più documento e testimonianza che opera di finzione intera. Ancora più enigmatico risulta il premio d’interpretazione a Nazij Mujic: pur ammirando e rispettando il coraggio civile, la fermezza e lo spirito combattivo di Nazif di fronte alla discriminazione e all’ingiustizia, queste qualità da sole non bastano, bisogna ammetterlo, a fare di lui un attore eccezionale.

Ampiamente meritato è stato invece il premio attribuito alla cilena Paolina Garcia per la sua interpretazione di Gloria nell’omonimo film di Sebastiàn Lelio. Gloria è una commedia di costume dolce-amara sulle avventure e le disavventure di un’ultracinquantenne che, pur  divorziata e con due figli adulti, non vuole rinunciare ai piaceri della vita, rivendicando il suo diritto a divertirsi, ad amare e ad essere amata. L’eccellente sceneggiatura rivela tutte le sfaccettature del carattere di Gloria dipingendo con realismo e sensibilità tanto il suo entourage familiare quanto la società cilena che la circonda. Grazie al suo un ritmo incalzante e all’impiego perfettamente riuscito della musica che accompagna le traversie della protagonista dall’inizio alla fine, il film ci coinvolge in pieno nel suo universo vivace e sottilmente caustico.

Il premio per un film innovante, rimesso a Denis Coté per Vic + Flo ont vu un Ours  rende giustizia al film decisamente più personale, stilisticamente radicale ed originale della competizione. Il regista canadese, la cui filmografia è quella di un vero e proprio “autore”, si é mostrato molto commosso nel ricevere il premio dalle mani di Wong Kar Wai e, tenendo in mano il suo Orso d’argento, ha convenuto, scherzando, che il titolo del suo film è finalmente diventato realtà!

Senza sorpresa é stato anche il premio per la migliore sceneggiatura attribuito a Pardé di Kamboziya Partovi e Jafar Panahi, un premio politicamente corretto e, in un certo senso, scontato in anticipo. Pardé, di lunga l’opera meno riuscita nella filmografia di Panahi, è un film che, nella sua dolorosa indigenza, diventa prova e testimonianza palpabile di quanto uno stato di coercizione ingiusta ed ingiustificata possa influenzare il processo creativo di un artista.

L’americano David Gordon Green è stato premiato con l’Orso d’argento per la migliore regia per Prince avalanche, un remake del film islandese Either way di Hafsteinn Gunnar Sigurosson.  Prince avalanche è una piccola commedia insolita e lievemente surreale sull’amicizia improbabile di due giovani uomini che tutto sembra dividere. Sebbene diretto con brio e con un gusto spiccato per l’osservazione visiva di dettagli significativi, Prince avalance resta in fondo un film piacevolmente anodino.

Probabilmente troppo audace e sinistramente violento per aspirare ad un premio più consistente, Harmony Lessons, opera prima del giovane kazako Emir Baigazin – certamente uno fra i film più palpitanti in concorso – si è visto attribuire l’Orso d’argento per la migliore fotografia.

Il grande assente da questo palmarés
è stato Bruno Dumont, con il suo austero capolavo Camille Claudel 1915. Girato fra le mura di un ospedale psichiatrico con la partecipazione dei suoi convitti, rigoroso ed essenziale, attraverso il volto travagliato e luminoso di Juliette Binoche il film ci trasmette tutto il dolore, la speranza e la rassegnazione della scultrice, crudelmente internata a vita.

L’Orso d’Oro più significativo della manifestazione è stato quello attribuito a Claus Lanzmann, per l’insieme della sua carriera.

A conti fatti i film più interessanti, ambiziosi ed eccitanti di questa 63eesima Berlinale sono stati mostrati, senza dubbio, nelle sezioni parallele del festival: Panorama e Forum. Panorama, quest’anno particolarmente intenso, ci ha regalato un appassionante melodramma a sfondo musicale come The broken circle breakdown di Felix Van Groeningen (premio del pubblico della Berlinale), un documentario politicamente esplosivo sul genocidio perpetrato in Indonesia durante il golpe militare del 1965 come The act of killing di Joshua Oppenheimer, ed ancora un’opera prima originale, stringata ed inquietante come Youth dell’israeliano Tom Shoval nonché Love Battles l’ultimo opus, radicalmente trasgressivo, del maestro francese Luc Doillon. Il Forum, da sempre aperto alle forme più sperimentali del cinema, ha accolto il primo film di finzione di Gustav Deutsch, Shirley-Visions of reality, inoltre un vibrante documentario di found-footage sull’artista brasiliano Hélio Oiticica, firmato dal suo nipote Cesar Oiticica Filho, un racconto politico, mitico-musicale proveniente dalla Guinea-Bissau, A batalha de Tabatò di Joao Viana, e la meditazione poetica di James Benning, Stemple pass.

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