Perdita, rabbia, solitudine. Oltre la consapevole disperazione di un uomo, c’è uno spazio deserto sospeso tra l’idea e il nulla, tra l’illusione e il disincanto, tra l’emozionee il cinismo. E in mezzo a questo spazio, un desiderio destinato spegnersi.

Out of the Furnace è la storia di Russell Baze (Christian Bale), un uomo che ha smarrito simultaneamente ogni certezza della sua esistenza personale. E’ un film incompiuto e imperfetto come il suo protagonista, che tuttavia riesce a smuovere l’anima, altrettanto incompiuta e imperfetta, di chi lo guarda.

La linea di non ritorno di Russell è segnata e scandita da una notte precisa, e da un incidente stradale in cui uccide involontariamente due persone. Fino a quel momento la sua aspirazione ad un’esistenza tranquilla, oseremmo dire ordinaria, pareva appagata: una compagna di vita da amare fino al resto dei suoi giorni; un lavoro onesto nella fonderia in cui il padre, ora costretto a letto da un male incurabile, aveva trascorso la maggior parte dei suoi anni; un legame intenso col fratello minore (Casey Affleck); una speranza concreta in un società migliore, con il tramonto dell’epoca bushiana e all’orizzonte l’alba dell’era del profeta Obama, gravida di promesse di giustizia ed uguaglianza perfino per la provincia americana più antihollywoodiana come quella in cui Russell si trova a vivere fin dalla nascita.

Ma dopo l’incidente arriva la prigione. Quella prigione che sospende la certezza di felicità. Russell espia con dolore la sua colpa, poi finalmente torna in libertà ma non sa ancora che da quel momento la sua reale condanna è appena cominciata. Il padre se n’è andato senza aspettare il suo ritorno. La donna che ama lo ha lasciato, si è messa con lo sceriffo locale e da lui aspetta un figlio. La fonderia ha chiuso per colpa di una crisi che le nuove forze politiche anziché arginare, sembrano aver accelerato. Il fratello, indurito delle cicatrici della sua esperienza come militare in Iraq, fa il pugile nelle Illegal Wars, guadagnando qualche spiccio attraverso il pericoloso giro di scommesse organizzato da Curtis DeGroat (Woody Harrelson), un violento malavitoso locale. Russell non riconosce più il mondo. E’ soverchiato da un inusitato senso di impotenza verso ciò che gli è stato violentemente sottratto, verso l’ingratitudine che il destino gli dimostra rispetto alla sua condotta etica mite, lineare, e così ineccepibile da sembrare artefatta. Vorrebbe invano riprovarci, risollevare le sorti compromesse, riconquistare l’amore della donna che gli pareva ideale, ricollocarsi nel mondo, proteggere il fratello. Non desidera essere una vittima, ma nell’attimo stesso in cui rifugge questo pensiero, ha la certezza di esserlo diventato. Vittima della vita e di se stesso. Dei propri limiti intrinseci che non credeva così irreversibili, della rabbia malcelata nel suo mite interagire, della sua illusoria convinzione sulla meritocrazia delle azioni umane.

Quando il fratello muore per mano del cattivissimo Curtis, Russell ha un solo obiettivo: uccidere quella che gli pare la fonte universale dei suoi guai.Eliminare il malvagio e attivare la catarsi. Riscattare la sua storia e quella della sua famiglia dalle iniquità subite. Ricollocarsi.

Lo trova Russell il malvagio Curtis, gli tende un agguato, lo bracca, lo insegue attraverso un prato che sembra infinito. E poi gli spara a una gamba. Vuole finirlo lentamente però, non così veloce come la vita ha fatto con lui. Curtis cade a terra, poi si rialza a stento, si volta e guarda l’altro da qualche metro di distanza: non implora pietà, anzi vuole vedere fino a dove la rabbia scorterà Russell.Ancora un altro sparo. Curtis ha uno spasmo, continua a barcollare ma non cade. Un altro colpo ben assestato e allora sì che sarà la fine, certo che per Russell si apriranno le porte della riqualificazione. E’questa senza ombra alcuna di dubbio la scelta vincente.

Ecco l’ultimo sparo, letale per Curtis.

Ecco che cala il buio.

Ecco la solitudine.

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