In un eventuale aggiornamento del Dizionario dei luoghi comuni di Flaubert bisognerebbe mettere la frase: "Ah io la TV la guardo poco, al massimo qualche documentario…". Poi magari quella stessa persona in privato si diletta con reality, fiction in stile santino, televendite o i "Bellissimi" con rassegne anni settanta tra Maurizio Merli e Nando Cicero. Almeno questi devono essere i gusti di molti capistruttura e addetti alla programmazione, se vedere un documentario in prima serata risulta essere quasi un unicum. Ma al di là della nostra forse troppo facile ironia il pubblico per dei buoni documentari c'è, lo ha dimostrato il buon successo di A Slum Symphony. Allegro crescendo, film di Cristiano Barbarossa dedicato ai ragazzi del sistema di orchestre infantili e giovanili in Venezuela, trasmesso su Rai tre dopo "Che tempo che fa" nel mese di dicembre. Un documentario di informazione e di emozione, che riesce a raccontare con sensibilità e rispetto le storie di alcuni ragazzi e bambini venezuelani che attraverso lo studio della musica e il lavoro orchestrale trovano un'opportunità di vita diversa dai modelli di violenza dei barrios dove molti di loro abitano. 300 mila bambini e ragazzi coinvolti in un grande progetto sociale nato negli anni Settanta in un paese di grandi ricchezze petrolifere e forti disparità sociali. Barbarossa si mette ad altezza di bambino e racconta l'epopea di questi orchestrali, ma anche le storie difficili del loro quotidiano, senza retorica ed evitando intenti apologetici.

Abbiamo quindi deciso di porre alcune questioni al regista che ci ha raccontato la storia di questo lungo progetto iniziato nel 2004 e altri aspetti del mestiere di documentarista che non sempre sono evidenziati. (Per chi volesse vedere il film rimandiamo al sito aslumsymphony.com)

La più ovvia, ma necessaria, come nasce il progetto di un documentario sul sistema musicale e sull'orchestra giovanile?

L’idea è nata verso il 2000 in occasione di un tour dell’Orchestra Giovanile del Venezuela “Simon Bolivar” in Italia. Con Lorenzo Torraca, il produttore insieme a me del film, provammo a proporre il racconto di questa loro esperienza, ma non trovammo un grande riscontro. La prima svolta fu nel 2004 quando lo proposi per un servizio a Piero Angela con cui stavo collaborando. Il servizio andò benissimo. A quel punto, in modo totalmente indipendente, abbiamo ripreso il progetto e ci siamo decisi ad andare avanti con l’idea di farne un film – documentario.  

Prima del girato c'è stata una fase preparatoria di studio e di scrittura? Ce ne puoi parlare? Che tipo di metodo usi per preparare lo script dei tuoi film? 

L’occasione di Superquark mi ha dato l’opportunità di essere un passo avanti rispetto alla preparazione del film, fermo restando che sono cresciuto in Venezuela e questo dà sicuramente una marcia in più.  All’inizio avevo individuato ed iniziato a girare 13 possibili “protagonisti”. Ho iniziato ad annotare ed individuare cosa potevo raccontare attraverso di loro. Volevo che tutto fluisse dalle loro storie e dalle loro parole. Non è stato semplice fare delle scelte, erano tutti molto interessanti e poi, come sempre, c’è un forte coinvolgimento di tipo umano. Dopo un anno ho deciso di seguire otto di loro, che nel montaggio finale sono divenuti cinque, anche se alcuni bambini sono rimasti come personaggi “co – protagonisti” specialmente nella parte iniziale del film.    

Immagino quindi che al montaggio avrai dovuto sacrificare parecchio materiale. 

Parecchio materiale e in alcuni casi anche ben montato! Non puoi pensare di usare tutto in cinque anni di lavoro. Il taglio più doloroso però è stato eliminare da una versione che ritenevo definitiva, un personaggio praticamente chiuso… un vero lutto! Poi ho eliminato tutte le interviste fatte ai “grandi”, ai personaggi che sono un po’ un mito per questi ragazzi e questo proprio perché volevo che mantenessero quell’aura di leggenda che hanno per loro. 

Infatti hai scelto di rimanere all'altezza dei ragazzi e di escludere i grandi personaggi come Abbado, Abreu, e Dudamel visti solo da lontano, ce ne puoi parlare meglio? 

Sono personaggi affascinanti, che ti rapiscono quando parlano, ma su questo alla fine sono stato molto rigoroso. Non che arrivasse un’intervista “estranea”, seppur totalmente coerente, nel flusso narrativo delle loro storie.  Ho tagliato personaggi come Placido Domingo o Simon Rattle, ma se li avessi inseriti, così come se avessi inserito una voce narrante, sarebbe stato un altro film. Avevo tra le mani cinque anni di vita, con alcune scene molto intense. Non potevo ambire ad una “sceneggiatura” migliore! 

Avresti voglia di raccontare il tuo approccio al cinema e al documentario, come sei arrivato a girare reportage?  

Ho iniziato un po’ per caso, di fatto a sedici anni scrivevo per delle riviste di musica dove ho iniziato ad occuparmi di cinema e di letteratura dei paesi di lingua spagnola. Leggevo moltissimo, anche se il mio modo di leggere è sempre stato molto “visivo”. Pensavo di voler fare il corrispondente dall’estero, sempre per la carta stampata. Poi all’inizio degli anni ‘90, per caso, ho trovato lavoro come assistente di produzione “brasiliano” nel set di un film italiano, mai uscito, che stavano girando in Brasile. Io ero lì per migliorare il mio portoghese e per stare al massimo un mese. Alla fine mi sono ritrovato sul set per circa sette mesi. Questo qualche anno dopo mi ha creato il curriculum necessario per fare il producer “venezuelano” per un documentario che Paolo Brunatto, esponente del cinema underground italiano, purtroppo recentemente scomparso, doveva girare in Amazzonia sugli indios Yanomami. Un tema, quello della foresta amazzonica, che avevo approfondito attraverso i grandi romanzi di letteratura ispanoamericana e brasiliana. Durante le riprese ci furono parecchi imprevisti, legati alle condizioni atmosferiche e ad alcuni problemi tecnici: per superarli proposi a Paolo delle soluzioni narrative che lo colpirono e che ci hanno permesso di fare un buon lavoro. Mi propose quindi di collaborare in un altro documentario per Raitre di cui scrissi il soggetto, che ebbe un buon risultato in prima serata. Raitre, sulla base di altre proposte, mi ha offerto così di realizzare altri lavori da regista… Finalmente come italiano! Così è cominciato tutto. Il mio approccio al film – documentario è, evidentemente, quello di un autodidatta, appassionato di cinema e di letteratura, che ha imparato sul campo il “mestiere”. Al punto che la fotografia e le riprese di A Slum Symphony – Allegro Crescendo sono totalmente mie.  

Quali sono i tuo
i gusti nel campo dei documentari?
 

Per farti un esempio tra i documentari che mi sono piaciuti di più in questi ultimi anni, mi viene naturale citarti  lungometraggi come BUS 174 di José Padilha, oppure Balseros di Carles Bosch e Josep Domenech, che sento vicini, proprio per il fatto di essere cresciuto in America Latina. Passando ad altro, anche Capturing the Friedmans– Una storia americana, ed è grazie a questo film che ho pensato di affidare le musiche originali ad Andrea Morricone, oppure Born into Brothels, La Sierra, My kid could paint that che è una bella riflessione sull’arte contemporanea e sull’onestà necessaria nel fare documentari. Anche la visione di Walzer con Bashir credo sia molto interessante per chi realizza documentari. 

E nel settore più prettamente cinematografico quali sono i tuoi gusti? 

Se posso individuare un film che mi ha fatto appassionare al cinema da bambino posso dirti Othello di Orson Welles. Ne rimasi folgorato. Lo stesso vale per Quarto Potere. Sono onnivoro, nei limiti del possibile: da La Visita di Pietrangeli, fino a Blade Runner. Poi tanto altro, da 21 grammi a Ladri di Biciclette, da La città incantata alla La sottile linea rossa. Poi all’università grazie ai corsi di Guido Aristarco ho approfondito altri aspetti, ma gli input più importanti sul “narrare” li ho avuti da Ettore Finazzi Agrò, che attraverso la letteratura brasiliana e portoghese ha ampliato quella che era mia la percezione del racconto: autori come Clarice Lispector, Joao Guimaraes Rosa e Fernando Pessoa ti arricchiscono per sempre, qualunque sia il tuo mezzo e il tuo modo di comunicare. Tutto questo si è plasmato su quelle che erano state le mie vicende personali e oggi c’entra molto col mio modo di affrontare una storia, anche se poi ogni volta è una sfida diversa, dato che ci troviamo a raccontare delle persone e non a mettere in scena delle sceneggiature.  

Quindi le tue esperienze sono entrate nel tuo lavoro? In che modo? 

C’entrano moltissimo! Credo che la mia formazione sia stata anche quella particolare “lente” per osservare il mondo che ho elaborato trovandomi a essere un  ragazzino immigrato in un altro paese. Non emigrante, come amiamo descriverci, con pizzico di rimozione del reale, noi italiani quando espatriamo. Sei emigrante solo durante il viaggio: poi diventi subito immigrato. Nel mio caso, un piccolo immigrato nella “Venezuela Saudita” degli anni ’70. Quando gli “extracomunitari” eravamo noi, che arrivavamo in un paese in pieno boom economico, mentre in Italia c’era il terrorismo e l’austherity. Nel ’77 presi la nave da Genova  e ricordo ancora quelle donne italiane vestite interamente di nero, con il fazzoletto in testa che copriva i loro capelli. Un velo nero come la pece. Arrivando in un paese straniero, la prima cosa che vuoi fare, se sei un ragazzino, è integrarti. Osservavo ogni cosa di questa nuova vita, ascoltavo con attenzione ogni suono, ogni parola e quella credo sia stata la prima “scuola di cinema”, forse la più importante. Poi sono “immigrato” nuovamente in Italia e oltre agli articoli ho fatto un po’ di tutto, dall’insegnante di calcetto per bambini, al montaggio delle torri delle luci per i concerti. Ho perfino tagliato decine di migliaia di tubicini di plastica in un seminterrato per delle batterie elettriche. Tutto, se vuoi, ha fatto parte di un percorso che ora mi ha portato a raccontare soprattutto storie personali. Credo sia assolutamente necessario imparare la “grammatica”, e se necessario disimpararla anche. La conoscenza della “forma” è fondamentale in ogni modalità espressiva. Ma se non elabori un tuo sguardo, una tua sensibilità, mutuata dalla vita, credo diventi estremamente difficile riuscire a raccontare “la vita degli altri”.

Mi indicheresti la tua filmografia e quali sono le opere cui sei più legato? 

Un reportage al quale tengo è Bananas, realizzato quasi totalmente di nascosto in Guatemala. E’ un racconto, per forza di cose, senza troppe attenzioni all’aspetto visivo sulle condizioni dei lavoratori delle multinazionali bananiere della Dole, Chiquita e Del Monte. Poi c’è “Lo Sguardo Negato: uomini e donne dell’Iraq” che ho realizzato sempre con il sostegno di Lorenzo Torraca per Raitre. E’ il racconto di storie di vita quotidiana in Iraq prima  e dopo lo scoppio della guerra. E’ un documentario al quale sono molto legato perché fotografa un momento storico molto particolare: l’Iraq fino ad una settimana prima dei bombardamenti che è stato coperto moltissimo dalle news ma molto meno da uno sguardo documentaristico. Già nel titolo, “Lo sguardo negato”, ho voluto sviluppare tre suggestioni: la prima era quella dello sguardo negato all’Occidente, in particolare in Italia, di un’umanità estremamente interessante che in quel momento, pur subendolo, riusciva a trascendere il dittatore. La sensazione era che lo stereotipo dell’iracheno che “doveva” essere mostrato in Italia, fosse quello dell’uomo di mezza età, inneggiante a Saddam Hussein, con i baffi e con un fucile in mano. Io volevo andare oltre. In Iraq c’è una delle popolazioni più giovani del mondo. Quello che ho fatto è stato cercare di raccontare ragazzi, donne, persone che normalmente non avevano voce, nemmeno qui: persone come un fotografo che ho conosciuto e che di fronte ai controlli che il regime gli imponeva, come dover chiedere il permesso per i soggetti che voleva fotografare, si era chiuso nel suo studio di Baghdad a fare solo foto stiil life. Così, lui e i suoi studenti non dovevano chiedere il permesso a nessuno. Solo in questo modo sentivano di poter esprimere liberamente la loro arte, ricreando il mondo in una stanza, riuscendo così ad essere finalmente liberi. L’altro “sguardo negato” era quello degli iracheni verso il futuro, schiacciati dall’imminenza della guerra e le follie del dittatore e dei suoi rampolli. L’ultimo piano poi, era lo sguardo negato a noi, ovvero la censura che ogni giorno dovevamo subire per riuscire a raccontare gli iracheni e che in alcune situazioni abbiamo raccontato rubando delle immagini, in netto contrasto con le altre sequenze che, invece, erano molto suggestive dal punto di vista fotografico. 

Un problema non da poco se devi costruire un documentario, come siete riusciti a lavorare? 

Credo sia interessante raccontare come abbiamo superato questi ostacoli per capire come le condizioni di lavoro definiscano anche il registro narrativo. In un film come Essere e Avere, ad esempio,  hai più margini per poter fare delle scelte sulla forma. In Iraq con i controllori addosso, prima, e con le bombe e gli attentati, dopo, molto meno. Dei ragazzi di una scuola di cinema erano rimasti colpiti dal fatto che il  prima della guerra fosse caratterizzato da una luce più crepuscolare, da un’atmosfera da “ultimi giorni”. Un’osservazione assolutamente azzeccata. Al di là della br
avura nelle riprese di Mauro Ricci e Giuseppe Vitale, ci sono dei motivi pratici alla base. Nei primi giorni c’era stato assegnato un “controllore” che faceva questo lavoro con i giornalisti stranieri da anni e non intralciava troppo le nostre riprese sempre che uno fosse disposto ad implementare il suo stipendio. Il problema è che parlava inglese e francese e dopo poco ce lo hanno tolto a favore di un fotoreporter francese. C’è ne stato così assegnato un altro che era terrorizzato da qualsiasi inquadratura facessimo. Un problema, quasi paralizzante, che abbiamo ovviato, dispensando il nostro nuovo e stressato controllore piuttosto presto nel pomeriggio. Così facendo, a “fine giornata”, un po’ prima del tramonto, iniziavamo di nuovo a lavorare  in modo più “libero” con il nostro vecchio “angelo custode” francofono. Da qui quel sapore crepuscolare, perfetto a mio avviso, ma, onestamente imposto dai fatti. Questo per dire che nel documentario, a differenza del lavoro che puoi fare con degli attori su un set,  le varianti sono quelle della realtà nella quale ti trovi. Da lì inizia la tua capacità di costruire un racconto, anche partendo da questi limiti. In quel documentario poi abbiamo coinvolto uno dei personaggi che stavamo raccontando, ovvero un giovane regista iracheno, e questo ha imposto nuove soluzioni narrative. La morte tragica di Adnan, il nostro producer iracheno, ucciso da alcuni terroristi proprio perché aveva lavorato con delle troupe italiane, ha inevitabilmente influito dal punto di vista emotivo sullo sviluppo del racconto.
 

Qual è secondo te un documentario che riesce a far capire bene quali sono i “limiti” narrativi imposti dalle condizioni in cui si lavora? 

Trovo esemplare in questo senso un documentario come Roger & Me di Michael Moore, che è il racconto di un mondo in disfacimento, la città di Flint alla fine degli anni ’80, partendo proprio da un “fallimento” narrativo, da qualcosa che non avviene mai: un’intervista che lui vorrebbe fare e che non riesce a realizzare per tutto il film.  

In A Slum Symphony – Allegro Crescendo che tipo di lavoro hai fatto per conquistarti la fiducia dei ragazzi e quella delle loro famiglie. Molti di loro mettono il loro cuore a nudo davanti alla tua telecamera (che non è mai invadente).

In Venezuela non ci sono state ne’ mediazioni linguistiche, ne’, se vuoi, culturali, proprio perché ero considerato, praticamente, uno di loro. Penso che abbiano apprezzato anche il fatto che non ho mai avuto problemi a vivere con loro, nei loro quartieri. Loro stessi cercavano di creare una rete di protezione nei miei confronti. Spesso è capitato che si sentissero colpi di armi a ripetizione, a quel punto mi “imponevano” di non muovermi dalla loro casa finché la situazione non si fosse  calmata. Tutto questo ha creato un legame piuttosto forte. Oltre al fatto che, nei tour all’estero, ho sempre fatto la vita iperfrenetica che facevano loro. E poi siamo stati sempre in contatto, anche quando io rientravo in Italia. 

C'è l'epos pedagogico della musica come volano per educazione e sviluppo, ma nello stesso tempo non è un'opera retorica. Come hai fatto per evitare di fare un film apologetico?

Ho cercato di essere il più possibile onesto, di raccontare i successi, le battute di arresto e i “passi falsi” di questi ragazzi. In fase di montaggio è capitato che in alcune scene, perché il rischio è dietro l’angolo visto l’argomento trattato, si sia presa una direzione che aveva qualcosa di retorico. Ma te ne accorgi, qualcosa ti lavora dentro e  dopo asciughi, corri ai ripari. L’importante è capirlo.  

E’ un film molto impegnativo da un pdv produttivo e dei tempi di realizzazione, come hai fatto a stare nelle spese e a giostrare la tua vita privata con tutti questi anni di impegno dietro Slum S.? 

Non è certo un film con il quale puoi pensare di avere dei margini di guadagno. Non è per l’aspetto economico che abbiamo deciso di farlo. Nella vita ci sono delle cose che fai per passione, perché credi nel loro messaggio e perché ti fanno stare meglio. Per me e Lorenzo Torraca il valore di questo lavoro è tutto in questa direzione, anche se poi ovviamente non puoi produrre “a perdere”. Poi per quanto riguarda la mia vita privata, più che conciliata in questi cinque anni… l’ho praticamente “formata” in questi anni di riprese! Da bambino, in Venezuela, avevo un’amica che vedevo molto spesso. Beh, durante le riprese l’ho rincontrata, poco dopo ci siamo sposati e oggi abbiamo una bambina di quattro anni che si chiama Giulia. Un film nel film. E’ proprio vero che spesso, più che scegliere le storie, sono le storie che scelgono te…

A volte, confesso, che alcune belle immagini da te catturate, avrei voluto godermele più a lungo sullo schermo, è stata una tua scelta quella di dare un ritmo così veloce al montaggio? 

Ho cercato di non innamorarmi troppo delle immagini, dei ragazzi, dei loro volti, ho voluto rendere quello che è un po’ il loro ritmo di vita, estremamente dinamico, con dei continui spostamenti tra un saggio, un concerto, la scuola e la vita e i pericoli che possono presentarsi nei barrios. Anche io ho vissuto a quel ritmo e in fase di montaggio non me lo sono voluto scrollare di dosso. Ho pensato che fosse funzionale al racconto di quel mondo fatto di bambini e adolescenti. Ho rallentato il ritmo nei momenti di riflessione, di confessione. 

Cosa pensi della situazione italiana per quanto riguarda il documentario?  

Credo che ci siano degli autori bravissimi e penso che la televisione può svolgere un ruolo molto importante, che dia uno spazio più ampio di fruizione rispetto a quello, sicuramente importante, della sala e dei Festival, senza trascurare l’apporto produttivo che in questo settore la tv pubblica italiana potrebbe avere. Alla fine la sala cinematografica per un documentario sembra sempre di più il momento di promozione per il DVD. In televisione va superato il fatto, secondo me, che il documentario italiano trasmesso in prima serata sia sostanzialmente quello storico fatto con i materiali dell’Istituto Luce. Credo che sarebbe molto importante creare uno spazio, un contenitore libero, in prima serata, che possa aggiungersi, non sostituirsi, ai reportage e alle inchieste sull’Italia, stile Gabanelli, Iacona o Santoro, che sono il “sale” vitale dell’informazione.  Un altro appuntamento più legato al film documentario, rispetto al reportage o l’inchiesta italiana. Questo considerando anche che un certo tipo di racconto, alla Zavoli, si fa sempre meno ed era, in un certo senso, “propedeutico” al film documentario. Niente di trascendentale se si guarda all’estero: al di là dei contenuti e delle forme espositive, in Francia “Envoyé Spécial” ha creato nel temp
o un appuntamento fisso in prima serata al quale i telespettatori fanno riferimento. Creare qualcosa di simile, un po’ alla “Storyville” della BBC, che proponga film documentari che spazino da La Bocca del lupo a The Fog of War, da In un altro Paese a L’Orchestra di Piazza Vittorio, da Un’ora sola ti vorrei a Draquila, passando per Mad Hot Ballroom fino a Videocracy, La Miniera del Diavolo o Nasi, lo stile iraniano. Un “appuntamento” dove il film documentario, in tutte le sue espressioni, possa trovare spazio: da The September Issue, che tratta un tema che a me non appassiona in modo particolare, la moda, ma che è un bel racconto, fino agli scacchi, tema apparentemente noioso, di  Game Over: Kasparov and the Machine, che sostanzialmente è il racconto dell’ossessione di un uomo, Kasparov, che teme di essere stato ingannato dall’IBM e non si dà pace. Non è più lo stesso a causa di questa ossessione.

Secondo me, come avviene in altri paesi questo spazio dovrebbe essere peculiare proprio della televisione pubblica, generalista, mentre oggi viene sostanzialmente “appaltato” alle pay per view, alla nicchia. Vale la pena di rischiare all’inizio anche con degli ascolti bassi, ma alla fine poi i risultati arrivano. Così si creerebbe un laboratorio importante per gli autori italiani che si confronterebbero con la migliore produzione internazionale. Ci deve essere un percorso di diffusione che incrocia sia la sala e il DVD, che la prima serata della televisione pubblica. Altrimenti con l’uscita al cinema e la messa in onda (forse) ad orari da lupi mannari, si rischia l’effetto “panda”, quello della riserva, nemmeno troppo protetta, dei “documentaristi”. E’ auspicabile che la televisione pubblica rischi come è stato fatto nel mio caso e chi fa documentari deve essere in grado di saper cogliere questa scommessa.

Infatti il tuo documentario ha avuto ottima visibilità sulla Rai, caso raro per un film italiano.  

In questo caso il merito va proprio a Raitre e in particolare al suo direttore Paolo Ruffini che ha sempre creduto che questo documentario, per il tipo di racconto che era stato sviluppato e per il tipo di messaggio che poteva trasmettere, dovesse essere messo in onda in prima serata. Credo che alla fine la risposta del pubblico sia stata positiva, con picchi di circa due milioni di telespettatori e una media ben oltre un milione di spettatori. Al cinema devi fare praticamente un cinepanettone per arrivare a questa platea, considerato che stiamo parlando di un documentario che ha come tema centrale la musica sinfonica. La sala, alla fine,  la fai lo stesso se il film piace. Ancora oggi, pur essendo andati in onda, ci continuano a chiedere il film per delle proiezioni in sala dove la gente lo apprezza in versione originale con i sottotitoli, che è poi quella che io amo di più.  

A questo punto avrà anche una distribuzione in dvd?

Guarda il dvd esce a marzo, tra un mese…. in Giappone però! Per quanto concerne l’Italia, siamo nelle mani di Rai Trade che ne detiene i diritti….. nel frattempo ci arrivano tantissime richieste per averlo, tanto da appassionati di cinema che lo hanno visto o ne hanno sentito parlare, come da scuole o da Università.  

Sei in contatto con i protagonisti del film, ci puoi raccontare quali sono gli sviluppi ultimi delle loro vite? 

Negli ultimi anni, oltre al telefono, è entrato un ulteriore elemento di comunicazione tra me e loro che è facebook. Sono adolescenti, è il loro mezzo preferito! Angelica  sta facendo molti tour in giro per il mondo come solista. Lo stesso vale per Wilfrido con l’Orchestra Simon Bolivar. Altri stanno insegnando ai bambini più piccoli, altri ancora hanno intrapreso l’università. Sono riuscito a mantenermi in contatto quasi con tutti. Del resto cinque anni di percorso insieme non sono pochi.  

A quali personaggi sei rimasto più legato?

Il personaggio al quale sono più legato è Jonathan, il ragazzo che nel documentario proviene da una famiglia piuttosto problematica e che a un certo punto intraprende la carriera militare per poi tornare allo studio del violoncello. E’ stato invitato per ben due volte qui in Italia dalla Rai, in occasione delle presentazioni del film. Si è creato così un “circolo virtuoso” nel quale il Festival di Castellinaria, dove abbiamo vinto il Premio del Pubblico, ha fatto in modo che Jonathan stesse per un buon periodo a Lugano a frequentare il Conservatorio e a preparare un concerto di musica classica, anche venezuelana, con l’Orchestra Giovanile del  Conservatorio. Nel frattempo l’associazione culturale Pequeñas Huellas di Torino, che si occupa di musica e ragazzi, gli ha fatto avere una borsa di studio ed è stato preso al conservatorio di Musica di Torino come auditore dove è seguito dai migliori Maestri di violoncello. In questi ultimi tre mesi ha fatto incontri con bambini delle elementari e delle medie sull’importanza della musica classica. Mi ha commosso quando un bambino a Milano dopo aver visto il film gli ha detto: “Lo sai che sei il nostro campione!”. Ha poi incontrato ragazzi al rione Sanità di Napoli, a Catania, a Roma nel quartiere Torre Angela, e nel frattempo lo hanno chiamato per altri incontri e concerti a Cagliari, Reggio Emilia, Venezia, Firenze, insomma in tutta Italia. Ora è seguito, gratuitamente, da uno dei migliori avvocati di Torino, proprio per cercare di fare in modo che la sua storia bellissima continui qui in Italia. Ma qui le pratiche per far restare un ragazzo che suona musica sinfonica ed è un esempio per molti, sono praticamente impossibili. Del resto non è ne’ il nipote di Evo Morales, ne’ quello di Lula…. Nel frattempo il Conservatorio di Lugano lo ha invitato in Svizzera per studiare lì. Temo che il nostro, alla fine, non sia un paese per giovani. Semmai, per giovanilisti.   

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One thought on “A Slum Symphony. Intervista a Cristiano Barbarossa

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