[*12] – Leggendo le critiche sull’ultimo lavoro di Pupi Avati, emerge una contrapposizione abbastanza netta tra quelle dei quotidiani e quelle dei vari siti internet specializzati in cinema. Mentre i primi manifestano un certo apprezzamento (se pur non troppo enfatico) nei confronti de Gli Amici Del Bar Margherita, i secondi tendono a liquidarlo come prodotto cinematografico medio basso. Dove i primi vedono nel film una valida continuità del consolidato lavoro del regista, i critici della rete vi scorgono un risultato che fatica a prendere il volo, un film che si inserisce in quel segmento cinematografico, prevalentemente italiano, che difficilmente dà alla luce pellicole che abbiano un respiro internazionale.

Se ci si sofferma nel cercare di comprendere il perché di una simile contrapposizione, le ipotesi possibili potrebbero essere almeno due: una maggiore conoscenza della filmografia dell’autore dovuta all’età anagrafica degli stipendiati critici “cartacei”, senz’altro in possesso di un sapere, soprattutto su di un certo cinema, più ampio rispetto a quello del critico online. Conoscenza (lo ribadiamo) dovuta esclusivamente a ragioni di età e quindi di esperienza filmica, nonché sicuramente avvantaggiata dalla possibilità di focalizzare la propria attenzione su quella realtà oggetto del proprio lavoro, il cinema appunto, data dalla condizione professionale giornalista/critico “a tempo pieno”. Detto sapere certamente permetterebbe di analizzare più analiticamente il film nel continuum del regista, valorizzandone le pieghe autoriali meno evidenti. Una seconda ipotesi potrebbe spiegare la polarizzata discrepanza di giudizio rapportandola ai due diversi medium di divulgazione critica: l’istituzionale quotidiano cartaceo e la maggior autonoma rivista in rete. Dove il primo tenderebbe in una sorta di forzato rispetto, reverenzialità o se vogliamo carineria nei confronti di alcuni veterani autori nostrani, la seconda protenderebbe per un’analisi maggiormente svincolata da tutta una serie di elementi: non si hanno più o meno conosciuti nomi da salvaguardare a piè di pagina, né la rivista possiede quel presunto grado di autorevolezza mainstream che tenderebbe a smussare le analisi più polarizzate in altre maggiormente concilianti, questo soprattutto quando in esame ci sono film del nostro stesso paese.

Il discorso potrebbe essere maggiormente approfondito ma ci limitiamo a questo pur lungo preambolo semplicemente per constatare che ci troviamo sostanzialmente allineati e concordanti con la maggior parte delle critiche presenti in rete e quindi nel sostenere che l’ultimo film di Avati non è altro di più che un non ben fatto prodotto medio.

Avati mette in scena il suo alter ego, Taddeo, per rievocare una Bologna anni ’50 della sua adolescenza tra avventori e clienti fissi di un bar del centro. Storie e vicissitudini che ruotano intorno a questo gruppo di “eroi sciocchi”, come li chiama il regista, per parlarci di speranze, sogni e passate ingenuità, vizi e virtù, attraverso l’amore, il sesso, il matrimonio, l’amicizia, il gioco. I Ricordi del regista rimangono puramente enumerati, si avverte e si ha la sensazione che vorrebbero trasformarsi in altre suggestioni e in altri sviluppi riflessivi, ma il tutto fatica a prendere forma. Se pure il giovane Taddeo funge da figura centrale e di raccordo tra varie storie e personaggi, manca a livello di sceneggiatura un elemento cardine che riesca ad amalgamare e dare spessore all’opera e all’intero coro di figure. Il respiro e la peculiarità dell’epoca in esame stentano a manifestarsi e a trasmetterne evocazioni e suggestioni, le quali restano inesplicate nella memoria e nei ricordi dell’autore. Il film a tratti diverte e ha il pregio di non strabordare nel solito macchiettismo all’italiana, ma la riflessione su di un’epoca ha bisogno di un’indagine implicita e di una contrapposizione con la contemporaneità per emergere come analisi e considerazione su di un decennio, e questo ne Gli amici del bar Margherita manca quasi totalmente.

Grande utilizzo del presunto meglio tra gli attori del nostro cinema, alcuni se la cavano egregiamente (Abatantuono), altri pur bravi scadono nell’eccesiva enfatizzante caratterizzazione del personaggio (Il Lo Cascio che si misura in una prova fuori dal suo consueto).

Anche da qui, ci uniformiamo alla speranza “dalla rete” affinché il cinema nostrano possa maggiormente affrancarsi dal particolarismo fine a se stesso per deviare verso un’analisi di più ampio respiro.

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