Perchè sì

Perchè no

Ospitiamo la recensione di Luca Pacilio pubblicata sulla rivista www.spietati.it

A single man è un film sorprendente e molto, molto coraggioso. E’ un film sorprendente perché rappresenta il debutto nel cinema di Tom Ford – geniale stilista che, prima di esordire col proprio marchio, rilanciò nel mondo casa Gucci – con un lavoro molto accurato e cosciente. Coraggioso, perché Ford lo trae da una perla lucente della produzione di Christopher Isherwood, una delle massime penne in lingua inglese del secolo scorso: un romanzo non solo di magnifica scrittura (in Italia, Un uomo solo), ma tutto imperniato sul percorso interiore del suo protagonista che si snoda contemporaneamente a un percorso esteriore che acquista rilevanza intrecciato col primo, col carico di riflessioni che emerge dal pensiero del protagonista, un romanzo straordinariamente difficile da portare sullo schermo e che Ford, anche sceneggiatore, non ha alcuna remora a rileggere, modificare, adattare alla sua idea di film. A stravolgerne il senso, quando necessario, allineando alla chiarezza di idee sul fronte visivo, una determinazione sul fronte della concezione altrettanto stupefacente.
La novella di Isherwood narra di quello che, solo alla fine, si rivelerà essere l’ultimo giorno di vita di George, un professore universitario che vive un’esistenza solitaria dopo la scomparsa del suo compagno: la morte arriva all’ultima pagina del libro, inattesa, e rappresenta la chiusa di una giornata piena di piccoli avvenimenti attraverso i quali si legge a fondo nell’esistenza del suo protagonista. Nelle pagine dello scrittore, insomma, l’unica morte con la quale si confronta George è quella del suo uomo, ed è un confronto che si risolve nella difficoltà di gestire questa assenza, di portare avanti la sua vita di persona oramai sola (in questo senso il titolo inglese è ben più pregnante, avendo la parola single un’accezione più ricca). Il regista, invece, rovescia la questione e fa della morte un’ombra che aleggia sul protagonista fin dall’inizio: dunque il George che disegna Tom Ford è una persona al limite, un uomo che ha deciso di porre fine alla sua esistenza, che ha scelto quel giorno per suicidarsi. Nella nuova ottica gli avvenimenti e gli incontri che si susseguono in questa giornata assumono un doppio significato: non sono soltanto momenti di riflessione, quella del protagonista su un nuovo confronto col tempo presente dopo aver vissuto l’ultimo frangente della sua vita rivolto al passato, ma anche elementi da inserire nel più ampio progetto di morte che lo riguarda e che, tra una titubanza e l’altra, continua ad accarezzare fino alla fine delle ventiquattro ore.

A questa complessa materia Ford dona una maturità di sguardo che lascia stupefatti: si noti la scena della vestizione mattutina, il modo in cui il regista cristallizza, in macro, singoli dettagli perfetti; si apprezzino le variazioni di registro visivo, quei folgoranti cambi di colore che dicono dell’umore del protagonista, di un mondo esterno percepito come freddo e desaturato; i ralenti grotteschi sulle persone che abitano nel vicinato e che significano l’annoiata contemplazione di una vita circostante registrata come vuota di senso e incolore; l’esuberante invenzione scenografica, la fantasiosa concezione degli interni, le porte usate come un sipario che si chiude sui personaggi. Ford trasporta il suo sguardo e il suo immaginario sullo schermo, applica i canoni figurativi che conosce, usa gli attori come modelli, li veste per la sua messinscena (accessori compresi: si guardino occhiali, orecchini, cravatte: tutto il cast, comparse comprese, non ha un tono fuori posto), mettendoli letteralmente in posa, li divinizza (la Moore diventa una sorta di sacerdotessa-icona), fa del romanzo di partenza una base sulla quale erigere il proprio mondo, la propria idea di bellezza: i dettagli del corpo del tennista (mentre si parla della Russia – siamo nella fase cruciale della crisi Cuba-Stati Uniti –) si impongono come frammenti di immagini mentali, sono ombre di un desiderio a lungo narcotizzato; un flashback in bianco e nero che sembra uscito da un servizio fotografico di Herb Ritts ci parla di Jim come di un passato mitizzato col quale si fatica a chiudere; l’incontro casuale col ragazzo spagnolo (che ha l’ apparenza, il portamento e l’atteggiamento di un modello, che si muove consapevole della macchina da presa che lo riprende) è uno spot sulla bellezza, in cui la sessualità non c’entra, c’entra la rinnovata coscienza del professore di poter godere della visione di qualcosa che trova bello – per questo episodio il regista non ha alcun timore a sfoderare uno spudorato cielo rosa -.
Un’invenzione sofisticata, ma senza un’ombra di patinatura, domina l’opera, governata da una scelta di stile consapevole, forte, funzionalizzata al discorso filmico, mai affidata alla figura vuota, imbellettata, fatua. Il prezioso cast (con Firth e la Moore a giganteggiare) fa il resto, operando in un modo perfettamente coerente alle esigenze rigorosissime di una messinscena altrettanto rigorosa.
E Ford risolve con meraviglioso estro tutte le tappe di questo micro viaggio di George, non le sovraccarica mai di sensi, le essenzializza; esse sono sempre fluide, scorrevoli, non si impigliano mai nell’ostentazione di un significato di troppo: l’ incontro con l’amica Charley, che nel testo è una sorta di forca caudina alla quale il professore decide quasi per pietà di sottoporsi, è risolto con leggerezza, portato su una dimensione di disincanto e malinconia che risulta perfettamente intonata all’esigenza dell’autore di rendere il processo a fasi che George sta attraversando nella giornata; l’incontro con lo studente Kenny, nel romanzo reso come episodio molto più complesso e problematico, viene del tutto riconsiderato, tradotto da un lato nell’esteriore ricerca di identità sessuale del ragazzo e, dall’altro, nella considerazione del personaggio come una sorta di figura angelica e provvidenziale che entra nella giornata di George al preciso scopo di salvarlo dal suo intento di morte. George anche grazie a lui riscopre il valore dell’esistenza le cui prove questo giorno gli sta dando di continuo, comprende come tutte le piccole cose che gli sono accadute siano importanti, come certi piccoli dettagli siano quelli che compongono la vita rendendola degna di essere vissuta. Ne riassaggia di nuovo il gusto, godendone. Si riconcilia con se stesso e comprende che non ci sarà nessun suicidio. Ed ecco che, una volta che ha capito di nuovo cosa significa vivere, può, serenamente, morire.

di Giustino Finizio

Dall’omonimo romanzo di Christopher Isherwood, Tom Ford mette in scena la giornata particolare di George Falconer, un professore universitario inglese di 52 anni che fatica a trovare un senso alla propria vita dopo la morte del compagno Jim (Matthew Goode). George vive nei ricordi della sua relazione e ha uno sguardo ostruito verso il futuro. Un uomo solo perché single ma anche appartato per via della sua omosessualità vissuta nei primi anni ’60 e il titolo originale rende adeguatamente questo duplice stato. Nell’arco di una giornata, una serie di incontri lo aiuteranno a capire cosa fare della sua vita. Lasciamo da parte per un attimo chi sia Tom Ford e da dove venga. Dopo la visione di A Single Man si avverte una certa scissione, una sostanziale separazione tra aspetto formale e tratto narrativo, tra curatissimi dettagli nella messa in scena e necessari rimandi con la storia raccontata. O meglio Ford, con cura certosina, affida ai cambiamenti della fotografia e alle varie sfumature della saturazione cromatica il contrappunto con gli stati d’animo del protagonista, sottolineandone così il ricordo, la melanconia, il dolore, la fiducia, la speranza che progressivamente si avvicendano nella giornata del professor George. Pervade eccessivamente il suo lavoro con inquadrature e sequenze disegnate con maniacale esattezza. Perfezione e scrupolo che si propagano ben di là dalla macchina da presa: con arredi, scenografie, abiti ed accessori impeccabili nelle loro fattezze e accostamenti. E i personaggi sembrano gridare ossigeno sommersi come sono da un mare filmico che li sovrasta. Ford viene dalla moda e questo balza subito agli occhi, ogni regista porta inevitabilmente con sé ciò che l’ha formato e, si badi bene, questo non è, e non può essere, né una colpa né un punto a sfavore. Cosa che renderebbe la riflessione sul suo film un bieco e snobistico pregiudizio. Tanto cieco e gratuito poiché appare fin troppo evidente che Ford con la macchina da presa ci sa fare, sia per innumerevoli esperienze passate nel campo delle campagne pubblicitarie, sia perché si avverte nel suo film un citazionismo fatto di suggestioni quasi eteree; un amore nei confronti del cinema e dei tanti film e registi che deve aver venerato, ipotizziamo noi, con ripetute e quasi feticistiche visioni, uno su tutti: Wong Kar Way cui ruba anche il compositore Shigeru Umebayashi per il tema principale per sequenze al ralenty alla In The Mood For Love. Ma la grazia e la minuziosità registica non possono essere fini a se stesse, al contrario, quando serve, devono necessariamente essere funzionali alla storia che gli si snoda davanti, per filiazione o per netta contrapposizione. E questa sceneggiatura non giustifica nessuno dei due opposti. Forse Ford, alla sua prima opera, per affanno e ansia da performance, ha eccessivamente focalizzato composizione e complementi perdendo di vista l’opera come un tutto organico. Crediamo che un film non possa essere eccessivamente attraente e raffinato senza una qualche voluta imperfezione o crepa che ci permetta di infilare un dito per toccare il precipizio su cui l’esistenza a volte si affaccia. 

Se il bravo Colin Firth (Coppa Volpi a Venezia) rimanda adeguatamente la personalità british del protagonista nel suo essere misurato, la compagine di personaggi che si affacciano lungo la giornata di George sembrano realtà eccessivamente frammentate che schivano ogni tentativo di dare richiami omogenei e convincenti che delineino lo stato d’animo del protagonista e il sapore della sua giornata. Il giovane studente Kenny (Nicholas Hoult), alla ricerca e definizione della propria identità, è una figura blandamente emergente per diventare pretesto e causa di qualsiasi guizzo interno di George. Il marchettaro Carlos (Jon Kortajarena) è troppo bello, “troppo modello” per simboleggiare la bellezza che torna a farsi contemplare dal protagonista in uno sforzo proiettato verso il presente, a discapito di un passato che lo incatena a ciò che mai più sarà. Qualche fremito più vitale ce lo regala Julianne Moore nel ruolo dell’amica/vicina insoddisfatta e alcolizzata (ruolo non nuovo per l’attrice che non dovrebbe abusarne), ma la sua comparsa si vorrebbe più lunga per permetterci, con rimandi, di interpretare con maggior respiro il mondo interiore del suo amico protagonista. Tornerà Tom Ford alla regia, perché ne è capace, ma ci auguriamo torni con un film che sia più meritevole del termine eleganza, come molti hanno definito questo suo primo, se è vero che l’eleganza contempla anche misura ed equilibrio.

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