Vedere E’ stato il figlio di Daniele Ciprì il giorno dopo Pietà di Kim Ki-Duk mi ha aperto nella mente numerose connessioni, tanto che mi è venuto da chiedermi se i due registi non si fossero sentiti in qualche modo per mettersi d’accordo su tematiche e su ambienti sviluppati: ecco, una delle grandi magie del cinema, quella di costruire ad un mondo di distanza uno scenario che si giustappone sullo schermo, al punto tale che usciti da un film, entriamo idealmente nell’altro – con le dovute precisazioni geografiche e connotazioni culturali locali.

Entrambi i film sono infatti ambientati in quartieri popolari – quello, italianissimo, di Ciprì in un caseggiato siciliano di periferia proletaria, fatto di palazzoni e cemento, negli anni ’80, mentre Ki-Duk sceglie un quartiere di baracche e piccole officine più a ridosso della contemporaneità, a Seul – spazi abitativi angusti e vite all’insegna della miseria, abitati dai sopravvissuti del mondo delle macchine di ieri che viene fagocitato dal fascino arrivista dei soldi facili, vittime della fase di smantellamento dell’industria pesante degli ultimi decenni. Tuttavia, se pure possiamo ricondurre entrambe le storie narrate a quella di figli problematici e di come il denaro corrompe, stravolge le loro vite, mandando in crisi l’unica sicurezza che dà struttura alle loro vite, quella dei legami familiari, i due film narrano due storie diverse: Ki-Duk ripropone le ossessioni di vendetta e punizione ormai tipiche del cinema coreano, mentre Ciprì scrive sostanzialmente un film di mafia, e si inserisce tutto sommato pure lui in un filone anche questo piuttosto consolidato nel cinema italiano, e meridionale in particolare – anche se i modi e i registri con cui vi si colloca sono decisamente originali.

Ki-Duk ci mostra la disumanizzazione del sicario di uno strozzino locale la cui esistenza è ridotta a pura riproduzione meccanica di violenza – c’è uno strozzino anche nel film di Ciprì, ma la vera vicenda alla base è come la famiglia Ciraulo venga distrutta non tanto dalla morte della figlia piccola, colta nel mezzo di una sparatoria, ma soprattutto dall’arrivo dei 220 milioni di lire del risarcimento che rendono tangibile il sogno piccolo borghese di tutta una generazione di persone semplici e abituate a vivere del poco guadagnato faticosamente: l’acquisto di un’inutile, costosissima auto di lusso, assolutamente fuori luogo e al di fuori di qualsiasi buonsenso.

Più realistico e affezionato ai modi della satira sociale, ma che non disdegna i momenti di grottesco cari al suo cinema e ai suoi programmi televisivi, è il film di Ciprì, meno pretenzioso e sinceramente onesto, al di qua della pesantezza, dell’artificiosità e della morbosità del meccanismo che scandisce tutto il film del collega coreano, che, per quanto visivamente raffinato e sublime, come tutte le sue pellicole, vive di didascalismi sinceramente insopportabili, passaggi pilotati che fanno di Pietà, più che un teorema, un “unisci i puntini” della settimana enigmistica.

Eppure, trovandosi entrambi a Venezia, Ki-Duk vince il leone d’oro, e invece, di Ciprì non parla quasi nessuno, pronto per essere parcheggiato direttamente nelle sale d’essai. Leggiamo che quello che non è piaciuto a Michael Mann del film di Bellocchio è stato l’averlo trovato un film piuttosto provinciale: che dire di Ciprì allora, e del suo film tutto recitato in dialetto, dall’ambientazione nazional-popolare, ma che la costruzione narrativa impeccabile, la qualità della sceneggiatura, la fotografia iper-realistica, le geniali soluzioni di regia, ci dimostrano tutt’altro che provicinale, un prodotto che si presenta degno del più avanzato, e anche raffinato, cinema europeo.

Allora io dico se lo merita due volte, il nostro applauso, il bravo Ciprì, e pazienza, se come al solito, E’ stato il figlio finirà parcheggiato direttamente nelle sale d’essai.

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