Scegliendo di includere L’Institutrice di Nadav Lapid nel suo concorso internazionale il Festival Paris Cinéma, giunto quest’anno alla sua dodicesima edizione, ha offerto al pubblico parigino l’opportunità di vedere in anteprima uno fra i film più significativi della produzione cinematografica israeliana di quest’anno.

Presentato fuori concorso alla “Semaine della critique” a Cannes L’institutrice conferma il talento e la forza creativa di Navad Lapid, giovane regista israeliano, che si era già fatto notare con un primo film possente e sottilmente critico: Ha-shoter – Poliziotto (2011) in cui due gruppi armati – un reparto anti-terrorismo della polizia israeliana e un gruppo di giovani rivoluzionari marxisti – si confrontavano in un drammatico show down finale. Il film era stato ricompensato al festival di Locarno con il “Premio speciale della Giuria”.

Opera inquietante che non si lascia ridurre ad un’unica categoria o riassumere in una sola frase L’institutrice é un film dalla trama e dal ritmo completamente diverso rispetto a Ha-shoter e può spiazzare chi si aspetti la stessa irruenza frenetica di quest’ultimo.

L’institutrice è infatti una pellicola sommessa, dai toni più pacati ma, man mano che la vicenda si sviluppa, un’analisi freddamente lucida della società israeliana contemporanea prende corpo; questa critica non sceglie un linguaggio esplicito ma ricama finemente tutta la sua ragnatela di contraddizioni, coercizioni, frustrazioni, pressioni sociali e ideologiche sul risvolto del non detto.

Protagonisti di questa vicenda, tanto singolare quanto emblematica, sono una donna sulla quarantina ed un bimbo di cinque anni. La donna appartiene alla classe media: compita, garbata, precisa Nira è, a prima vista, felicemente sposata. Madre di una liceale e di un ragazzo che sta facendo il suo servizio militare, Nira lavora come maestra in un asilo. Nel suo tempo libero si dedica con passione al suo hobby, la scrittura; sogna di scrivere poesie e per migliorare la sua tecnica segue un corso di scrittura creativa.

L’ambiente familiare della donna viene descritto con una precisione misuratamente astratta. Gli scambi con il marito, un uomo gentile ma con interessi molto più triviali rispetto a lei, sono apparentemente affettuosi eppure, la loro relazione di coppia ha un qualcosa di sottilmente forzato, innaturale. C’è come una sensazione di vuoto intorno a Nira; indicativa è l’assenza quasi totale, tanto dalla scena quanto dai discorsi della donna, dei figli che pare non rientrino più veramente nella sfera delle sue preoccupazioni.

Il bimbo si chiama Yoav e frequenta l’asilo di Nira, è sempre un po’ in disparte. Biondo con gli occhi azzurri ed uno sguardo opaco ed insondabile; ha un solo amico, un ragazzino svelto e un po’ aggressivo. Yoav si fa trascinare da lui in una serie di giochi scapestrati nel cortile dell’asilo e si piega volentieri alle sue direttive. Figlio di genitori separati, Yoav vive con il padre, un giovane imprenditore, proprietario di un ristorante di lusso. Ogni giorno il bimbo torna a casa con la sua baby-sitter, Miri, un’attrice mulatta sveglia e pratica, che si occupa di lui fra un casting e l’altro.

Questi due universi, per forza di cose diversi e separati, verranno inaspettatamente a convergere: il film mette in scena la cronistoria di quest’inquietante relazione.

Un giorno, per caso, Nira scopre che Yoav, cadendo in una specie di trance improvvisa, si mette a camminare avanti e indietro annunciando alla sua tata che è venuta a prenderlo: “Ho una poesia! Ho una poesia! ”. La giovane donna cerca in fretta carta e penna e annota le parole del bimbo. Nira, incuriosita, legge il testo trascritto e rimane senza fiato: i versi sono sublimi.

« Hagar é abbastanza bella,
quanto basta per me
una pioggia d’oro cade sulla casa
autentico sole di dio »

Per la donna, appassionata di poesia e poetessa in erba, é una rivelazione sconvolgente. Questa scoperta le cambierà la vita. D’ora in avanti il suo unico scopo sarà quello di proteggere e promuovere il genio poetico di Yoav. Yoav è infatti, agli occhi di Nira, eccezionale, diverso ed unico, un poeta dall’ispirazione tanto straordinaria, quanto straordinariamente misteriosa, capace di comporre – in un flusso di parole che lo assale all’improvviso – dei versi di una profonda e rara bellezza, assolutamente improbabili per un bimbo della sua età.
Nira però sembra essere l’unica a comprendere ed accordare tanta importanza al genio di Yoav: la tata, trascrive le sue parole, curiosa e divertita, quasi per gioco, il padre, un uomo d’affari pragmatico e  freddo, desidera solo che suo figlio cresca come un bambino normale. Schivo e riluttante, Yoav stesso é il primo a non considerare i suoi sfoghi lirici come qualcosa di speciale.

L’aspirazione, in un primo tempo, disinteressata e nobile della donna a difendere e preservare Yoav ed il suo rarissimo dono in una società biecamente materialista incapace di apprezzare l’importanza della poesia pura, si trasforma, a poco a poco, in una fissazione.

Seguendo un tragitto sinuoso e incerto, l’avventura di Nira e Yoav procede a scatti, nessuna azione è veramente prevedibile, l’atmosfera del film è rarefatta, sospesa, un malessere indefinibile inizia a serpeggiare lentamente, da una sequenza e l’altra, diventando sempre più palpabile. Giorno dopo giorno il perbenismo e la pacatezza di Nira si sgretolano; sogni incompiuti, desideri irrealizzabili e frustrazioni di lunga data vengono a galla e prendono il sopravvento sul corso normale della sua vita, trascinandola in una spirale di azioni sempre più incongruenti. L’entusiasmo e i buoni propositi del principio diventano sempre più ambigui e sfociano in una vera e propria ossessione.

Tesa e determinata la donna non esita a sconvolgere la sua routine, non disdegna nessun colpo basso e nessun mezzo pur di giungere ai suoi fini: preservare il talento straordinario del bimbo e farlo riconoscere pubblicamente dalla comunità letteraria del paese. Il suo desiderio esclusivo e malsano di essere al più presso di Yoav per poterne cogliere all’istante ogni sua parola poetica la porteranno a compiere un atto estremo.

La fotografia del film, virtuosamente precisa, agisce come un diapason, irradiando il fascino misterioso della trama. Un’immagine tersa e luminosa, in cui risaltano i contrasti cromatici  sottende i lunghi, complessi piani sequenza spesso filmati all’altezza del bimbo. L’obiettivo non esita a toccare i corpi, quasi a scontrarsi con loro, ma la prossimità ai personaggi più che illuminarli accresce la loro opacità, il doppio fondo delle loro passioni e dei loro pensieri. L’emozione sorge improvvisa quando l’inquadratura si fissa su dei primi piani completamente inattesi, come nella splendida scena in cui Miri, la tata, si mette a cantare guardando dritto nell’obiettivo. Il ritmo dilatato si adatta perfettamente a questa storia che, come un possente fiume sotterraneo, si svolge ai limiti del detto e del non detto, di ciò che é permesso e lecito e di ciò che non lo é, dei buoni propositi e dell’egoismo più spietato.

Nira crede di essere al di sopra degli altri, della media dei suoi concittadini ma, di fatto, lei stessa è toccata dai vizi che vuole combattere. Nel suo desiderio di purificare la società finisce per fare uso di violenza, menzogna e manipolazione. Prigioniera di un sistema statale che determina perversamente la sua scala di valori Nira si sente investita di una missione superiore. Ai suoi occhi Yoav, il bimbo prodigio è, come i profeti del vecchio testamento, un eletto. Prendendosi cura di lui, Nira si allinea sul più profondo retaggio della cultura e della storia ebraica: il concetto, appunto, di elezione.

Nadav Lapid sa misurarne il peso tragicamente ambiguo, in un paese dove – come aveva detto in un’intervista del 2011 a proposito di Ha-shoter: “… la violenza, l’aggressività e il malcontento sono costantemente canalizzati verso l’esterno, verso il conflitto con i palestinesi. Per queste ragioni il film non é per me solo un gesto puramente estetico, ma anche una dichiarazione politico-propositiva.”

Con L’institutrice il regista continua, fedele a se stesso, a descrivere dall’interno, il profondo malessere della società israeliana di oggi, scavando a fondo nell’anima della sua protagonista e in quella del suo popolo. Il suo proposito diventa ancora più inquietante se si considera che le poesie di Yoav sono state scritte tutte da lui stesso quando aveva l’età del suo piccolo protagonista….

Film possente e smisuratamente ardito, L’Institutrice è, in questo contesto, un’opera imprescindibile.

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