E’ davvero deprimente, oltre che sfiancante, assistere in queste ore alle solite polemiche post-festival per la mancata assegnazione del Leone d’Oro al film italiano Bella Addormentata di Marco Bellocchio. Dispiace dover constatare che, come al solito, sui quotidiani (questi sì davvero provinciali) si costruiscano salde ed effimere basi (estrapolando, fuori dai contesti di discussione, virgolettati) per creare una sterile polemica che di certo non ha a che fare con il cinema come arte e mezzo d’espressione. Dispiace ancor di più vedere come le parti chiamate in causa (loro malgrado) non riescano a tenersi fuori dal tranello e diano sfogo ad un disappunto rivolto contro mulini a vento e montati da ‘un giurato avrebbe sostenuto che il cinema italiano è…’, o ancora ‘Michal Mann avrebbe autoritariamente zittito x’. Un festival del cinema internazionale non dovrebbe contemplare tifoserie da stadio e questo è cosa ovvia (o almeno si spera); e una giuria internazionale premia da sempre ciò che ritiene valido. In fin dei conti sono solo premi e quel che conta è ciò che si è visto in un festival. Nel caso dell’edizione numero 69 del Festival di Venezia la giuria ha senz’altro dato i due maggiori riconoscimenti a due tra le pellicole più valide del Concorso: Pietà di Kim Ki-duk e The Master di Paul Thomas Anderson. Ad essere onesti nel palmarès si sarebbe potuto includere Thy Womb di Brillante Mendoza, ma nessuno sembra indignarsi per un film filippino. Che dire allora dell’edizione 2010 dove i capricci dell’allora presidente di giuria Quentin Tarantino assegnò il Leone d’Oro a Somewhere di Sofia Coppola quando in gara c’erano titoli come Il cigno nero di Darren Aronofsky, Meek’s Cutoff di Kelly Reichardt, Post Mortem di Pablo Larraín, Ovsyanki di Aleksei Fedorchenko e The ditch di Wang Bing?

Lasciando da parte considerazioni sulle inutili polemiche, l’impressione generale su questo Festival di Venezia 2012 che ha visto il ritorno in carica del direttore artistico Alberto Barbera resta incerta. Se restiamo su considerazioni molto generali, sulla carta erano presenti nel Concorso diversi nomi appetibili che a conti fatti hanno portato ad un risultato pari a nessun capolavoro, alcune incerte scoperte e qualche conferma; con l’aggiunta di alcuni titoli verso cui si stentava a capire il perché di una loro collocazione nella sezione principale. Uno strisciante sentimento simile alla noia (cosa davvero inauspicabile per un festival) ha attraversato la massa degli accreditati dopo il giro di boa, quando trascorsi i primi giorni di programmazione si è intuito che qualcosa di davvero entusiasmante non sarebbe mai arrivato, lasciando così spazio ad una poca fiducia verso la proiezione a cui si stava per assistere. Una programmazione dimezzata quella di quest’anno (rispetto alle fluviali proposte mulleriane) che ha permesso di poter vedere la gran parte delle pellicole distribuite nelle varie sezioni, senza la sensazione di aver tralasciato qualcosa di importante, ma da una scrematura di programma si attende una concentrazione di qualità che è venuta a mancare, dove disattesa è stata la promessa, per un festival internazionale, di assistere ad epifanici cortocircuiti visivi. Solo Spring Breakers di Harmony Korine è riuscito nell’inattesa impresa di poter accendere gli animi e creare capannelli di discussione fuori proiezione spaccando pubblico e critica per la sua capacità (finalmente) di generare folgoranti e multiformi prospettive.

Che dire poi della sezione Orizzonti, caratterizzata negli anni passati da un’abbondante proposta di generi e formati diversi, proposte disomogenee, pluralistiche, sconfinanti, con assenze di linee guida che spaziavano dalla fiction al documentario passando per la video-arte, con la sensazione di immergersi in visioni-smarrimenti dalle molteplici suggestioni. Una sezione potentemente gratificante nella sua capacità di generare smarrimenti visivi quest’anno ridotta ad una sorta di fuori concorso (nulla a che fare con il sottotitolo esplicativo della sezione ‘Le nuove correnti del cinema mondiale’) in cui buttar dentro titoli che avrebbero potuto benissimo essere inseriti nelle sezioni autonome Settimana Internazionale della Critica e Giornate degli Autori.

Resta invariato l’annoso problema strutturale che perdura da anni con scarsità e inadeguatezza di servizi e spazi consoni ad ospitare un festival internazionale e che fin troppe polemiche e discussioni ha già generato da qualche tempo a questa parte. Va da sè che ben presente resta lo spettro di Marco Muller per la sua imminente gestione del Festival di Roma, kermesse che potrebbe prendere inaspettate pieghe e dare filo da torcere a tutti gli altri festival nazionali, ad iniziare da quello di Venezia. Interessante sarà allora vedere cosa accadrà ai due festival nel 2013, anno in cui Barbera e Mueller potranno scoprire le loro carte e dare una chiara definizione ai loro festival dopo le edizione, per così dire di rodaggio, dell’anno in corso.

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