Paranoid Park di Gus Van Sant, passato in concorso a Cannes dove ha raccolto il tiepido “Premio per il 60° anniversario”, rappresenta un passo avanti nella ricerca artistica del regista di Portland. Più che nel lavoro sulle immagini, dominate dal solito controllo manierista cui ci ha abituati, è sul piano del contenuto e della narrazione che si avverte un’evoluzione. Se infatti movimenti al rallentatore e lunghi piani sequenza, oramai quasi una firma autoriale, anche qui non mancano – sebbene come capovolti in una dilatazione rappresentativa della profondità della psiche più che dell’orizzontalità dello sguardo – il vuoto mostrato in Elephant e Last days si direbbe che venga in qualche modo risolto e superato in una visione esistenziale meno rassegnata e più piena. La circolarità ipnotica, dal sapore irresponsabilmente amniotico, sembra insomma aver cambiato forma e pelle.

Un giovane causa la morte accidentale di un ferroviere. Perso in un senso di colpa inespresso e nel vuoto soffocante in cui galleggia la sua quotidianità, dimenticherà l’accaduto in una frantumazione senza gerarchie né priorità (la debolezza della struttura post-moderna in cui l’azione perde peso in una parificazione deresponsabilizzante). Attraverso l’aiuto di un’amica riuscirà a scrivere di quanto accaduto recuperando la memoria e assumendosi la responsabilità del fatto.

L’impasse circolare si spezza, ed ecco che la storia srotola via come un gomitolo a cui sia stato tolto il nodo. Se, insomma, gli ultimi film di Van Sant non rompevano il loop che sembrava avviluppare i protagonisti in un vuoto senza speranza (i piani sequenza “neutri” che rinunciavano a cercare le cause dell’evento) nel quale nessuna assunzione di responsabilità arrivava a dare spiegazione all’orrore che spingeva a suonare il piano senza cercare le note, a camminare senza vedere i passi, a uccidere senza sapere il perché, in Paranoid Park assistiamo, invece, ad una messa in scena progressiva. Ad una prima decostruzione dispersiva della realtà (transitoria e instabile come l’adolescenza resa attraverso le evoluzioni degli skateboard) segue una sospensione temporale del soggetto, perso in una lunga visione soggettivante nella quale, anche attraverso esperienze sensoriali – vere e proprie schegge di realtà fuori controllo, ché la realtà, sbattuta fuori dalla porta, in una consuetudinaria e ovattata difesa dell’esistente, sembra “rientrare dalla finestra”- poter riuscire ad attuare un primo svelamento del rimosso (importante a tal fine è l’uso del suono, costruito come un paesaggio stratificato).

Tale scavo, che comporterà rinunce e nuove aperture, culminerà, grazie anche ad un nuovo incontro, nella ricostruzione ultima del Senso attraverso la scrittura di una lettera. La distanza insita nel processo della scrittura, la messa in ordine dei pensieri e delle esperienze in una specie di personale scala ben temperata, restituisce memoria e nuova consapevolezza al protagonista, alla fine colpevole ma liberato. Funzione organizzativa e liberatoria della scrittura, quindi, che è poi anche l’elemento centrale su cui poter poggiare la costruzione della narrazione “più grande” sulla condizione umana. E Van Sant, progressista anarcoide che non smette di criticare Bush e le sue libertà obbligatorie, salva il suo protagonista ma non lo fa costituire, quasi così affermando l’incapacità della – attuale – giustizia istituzionale di scoprire e accettare la verità. Il ragazzo, nella sua personale ricostruzione, rivede quindi lo sguardo della vittima che in punto di morte sembra comprenderlo.

Alla fine del viaggio notturno organizzato da Van Sant il protagonista è cambiato. Riuscendo a non cedere alla tentazione del vuoto indistinto e irresponsabile, quanto a quella di far proprie regole stabilite da altri, trova la sua personale verità. Sulla scia di tanti magnifici antieroi americani, si direbbe.

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