STILL ALICE di Wash Westmoreland e Richard Glatzer – Quando la memoria si perde per un Alzheimer precoce di tipo “familiare” – cioè trasmissibile ai propri figli con una percentuale del 50%. Quando tutto è ridotto al momento presente, all’istante, al gesto che si compie senza più sapere il perché. Quando lo spazio diventa tutto uguale, tutto ripetitivo, allineato in un molteplice senza più giudizio, e quando il tempo diventa un punto nero senza più il passato a orientare e condizionare né più il futuro a dar senso a sogni e aspettative. Quando non sai più qual è il tuo lavoro e chi sono i tuo cari perché il sapere, tutto ciò che si è costruito in una vita, non esiste più, spazzato via nel giro di pochi mesi da ciò che non controlli e quindi non ti aspetti – il contrario di un progetto.

Cosa rimane? Cosa rimane dell’uomo perduto dentro un corpo organico malato, un corpo che agisce inesorabilmente contro di lui? Cosa rimane di un uomo che ha dimenticato la sua storia e la genealogia degli affetti?

Rimane innanzitutto il corpo dell’attore – del performer – dove la performance di Julianne Moore, la cui misura, film dopo film, rasenta sempre più la perfezione, ci dice del corpo che è fatto della mente che crea il linguaggio (insegna Filosofia del linguaggio all’università, non a caso), e cioè anche corpo a immagine e somiglianza di un Dio – ci si consenta la metafora-, e ci dice di un corpo fatto di un involucro fragile e pesante, specie di gabbia e carcere contro cui lottare, grumo di articolazioni e nervi e carne da nutrire e ripulire e accudire fino alla fine – ci è toccato in sorte di ardere e di consumarci in fretta, senza neanche un’unità di misura certa attorno a cui avvolgere, più o meno sottilmente, più o meno ruvidamente, le nostre aspettative. Rimane, poi, il ciò che accade, dove la differenza con la concatenazione e la prevedibilità è il sentimento di irriducibilità dell’uomo a soggiacere al tempo – il presente è anche gioia, il momento senza più la forma del peso del passato e del progetto del futuro è puro istante, respiro, attraversamento della vita. Rimane la poesia e l’amore, la speciale comunicazione, cioè, che una madre non più perfetta e una figlia sformata come può esserlo chi sceglie l’arte e il teatro scritto sull’acqua quale alveo ideale a mettere insieme esercizio di scrittura e assoluta spontaneità, conducono sul limite del (l’in)dicibile e del fuggitivo, dell’esserci ancora e dello spazio infinito e riflesso del cosmo, perché la poesia e la cura contengono anche una nuova nominazione del mondo e del corpo che è altresì evocazione e ricordo (la memoria del corpo) dell’origine.

Rimane – e si tenderà a dimenticarlo – come per ospitare l’altro dentro di sé si debba necessariamente sottrarre un po’ di realtà, si debba, cioè, fare il vuoto necessario a far entrare e sostenere la sua fragilità e anche la sua forza – ciò che fa la figlia minore, interpretata con carisma da Kristen Stewart (molto brava anche in Sils Maria, l’ultimo film di Olivier Assayas, dove si cimenta in un altro intenso confronto generazionale con un’altra attrice, coetanea alla Moore, colma di coraggio, Juliette Binoche). Rimane, infine, veicolato con pregnanza dalle ultime immagini, l’istante che incide e illumina il continuum dell’esistenza (tanto più se ridotta alla brutale ripetizione) laddove finisce anche per contenerne il riflesso disegnato dalla linea del tempo.

 EDEN di Mia Hansen-Love – Siamo all’inizio degli anni ’90, e se tra i giovani di oltreoceano si diffonde il suono minimalista e ombroso del post-rock, in Francia Paul e i suoi amici contribuiscono alla nascita dei famosi dj set permeati di techno, disco e soul che animarono rave e locali “garage” per oltre un decennio – una generazione. Quel suono caldo-freddo –cool, per capirci- che stempera e al tempo stesso, svuotandole di valori, acuisce le ansie dovute a crisi economiche, comunità senza più progetti, inadeguatezze ad assumersi il peso e il coraggio di relazionarsi alle nuove (più spesso false) declinazioni della libertà. Così che nel melieu molto francese in cui le righe costose di Paul Smith convivono con Jean-Paul Sartre e con tutte le riconfigurazioni della postmodernità, finisce appunto per farsi strada quel French touch che tra gli esponenti vanta anche gli arcinoti Daft Punk. Il film di Mia Hansen-Love, regista tra le più interessanti degli ultimi anni, si ispira al racconto vero del fratello Sven, musicista e dj house-garage diventato poi scrittore, scegliendo come registro principale il movimento e il divenire dei corpi durante una storia di formazione generazionale. Non c’è giudizio storico né affondo verticale psicologico, piuttosto partecipazione orizzontale e, al limite, un’aria di malinconia per tutta l’energia vitale che il tempo ruba ad ogni istante. Tuttavia, è evidente come ci sia anche una fiducia per ciò che la maturità può restituire in una forma sensibile -il racconto delle proprie storie.

E se da una parte la regista sembra inseguire con grande stile il movimento del mondo, dall’altra non manca di situarsi con sensibilità dentro ciò che accade tra corpi che desiderano la vita e che si desiderano, trovando il modo, pregno di una grazia molto speciale, di trasmetterci le temperature, gli odori e i battiti di corpi che scoprono, desiderano e si espongono -voraci e timidi.

La vita è soprattutto movimento, sembra dirci la Hansen- Love, la storia è processo e divenire ed è appunto sempre in movimento. Essenziale, in tutto ciò, è la pulsione travolgente e inarrestabile dell’eros, conduttore di estasi e energia come anche di ombra e dolore -di conoscenza, sembra altrettanto dirci. La regista incanala l’energia della vita nel movimento della mdp: come dire la forma che ordina il desiderio (pulsione socialmente non istituzionalizzata), l’arte che ordina il caos -niente di nuovo, ma ciò che conta, pensiamo, è anche la messa a forma del tema. E’ giusto che eros -sembra infine dirci- si prenda senza pagare il conto i propri diritti “generazionali”. Anche perché ciò che segue, 10 anni dopo, è l’affiancamento ad esso della dimensione progettuale, più responsabile, fedele quantomeno alle parole in movimento della scrittura -il film finisce con Paul che comincia a scrivere il suo racconto.   

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One thought on “Festival di Roma 2014: Diari dal festival – Da Still Alice a Eden

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