Come frequentemente succede nelle traslazioni libere adottate al cinema, il titolo attribuito alla versione italiana di Ricki and the Flash è inadatto. Non perché la storia di Ricki Rendazzo, ispirata ad un personaggio reale -la suocera cantante rock della sceneggiatrice, scrittrice ed ex spogliarellista Diablo Cody-, non sia un riprendere le fila di qualcosa di interrotto, ma perché i nomi dei film dovrebbero avere, a mio avviso, un po’ di fascino, e questo è un titolo scialbo. Ma se poi conosci la produzione del regista – Oscar del ’92 per la regia de Il silenzio degli innocenti ed altre pellicole come Femmine in gabbia o Qualcosa di travolgente – ti accorgi che, nel suo specifico caso, ci potrebbe anche stare. Demme è eclettico anche nell’ispirare stati d’animo e non si lascia giudicare ad un primo approccio, figurarsi per una dicitura. Demme lascia in attesa, disorienta, a volte sembra annoiare un po’ – e in questa sua produzione, che preferisco chiamare nella sua versione originale Ricki and the Flash, la lentezza si accentua decisamente nella prima parte del film. Il contesto della piccola cittadina americana di provincia è usuale, le serate all’interno dell’unico pub nel quale la band si esibisce trasmettono un vago tedio. Così come pure il lavoro da cassiera, nell’ennesimo ipermercato dove la donna subisce, per ragion di mercato, le umilianti direttive di un meschino e rampante coordinatore di magazzino, lascia perplessi. Ma Ricki è una cantante animata da forte convinzione e vocazione: nella sua vita ha la musica – Meryl Streep che canta e suona sul serio dopo essersi esercitata per mesi… il mostro sacro non finisce mai di stupirci e affascinare!. Condivide inoltre il letto ed un sentimento inesplorato, sorto tra note e microfono, con il chitarrista del gruppo – uno sfavillante, seppur vissuto e profondo, Rick Springfield, cantautore, musicista ed attore australiano. In questo suo eccentrico tran tran, viene tuttavia richiamata all’ordine di madre dalla telefonata dell’ex marito – un grigio e rodato Kevin Kline che non ricorda più nulla, ahimè, del ragazzo de Il grande freddo – che le comunicherà il tentato suicidio della figlia – figlia reale di Meryl Streep, l’attrice Mamie Gummer, che perderà sempre al cospetto della statura artistica della madre ma, visto il coraggio di mettersi in gioco in un ruolo così suicida!, troverà sicuramente il tempo e il modo di emergere.

E’ a questo punto che la trama diventa incisiva. La cantante, rosa da sempre da incommensurabili rimorsi per una maternità mai davvero sperimentata, vola verso Indianapolis nella casa in cui tutta la sua famiglia vive con la “nuova madre”. Ancor più lì Ricki non si riconosce, come nel suo nome originale che non comprende neanche quando le chiedono i documenti ai cancelli della villa, culla di equilibri mai svelati. La ragazza che non l’accoglie come lei vorrebbe, è una giovane fragile, una figlia che ha risentito della sua assenza e che esprime quindi la rabbia incontenibile. Tutto è ostile in quel luogo: il benessere vagamente ricercato, i due figli maschi, giovani adulti ormai affermati e con propri legami i quali anch’essi non manifestano davvero alcun desiderio di rivedere la madre se non quello, vendicativo, di mortificarla ed offenderla. Solo l’ex marito sembra avere ancora una sottile malinconia che lo lega a lei, qualcosa che lui svela nei pochi giorni in cui Ricki resta nella sua grande casa, cercando di rimettere insieme frammenti e figure di un disegno comune stracciato da troppo tempo.

La gestione di tanta emozione è un mix micidiale per la donna che, apostrofata anche da colei che si è occupata dei suoi figli – la nuova moglie – , se ne va via dalla casa con le ossa rotte. C’è persino un matrimonio nell’aria, quello del figlio più grande, cerimonia alla quale lei non è stata invitata, la goccia che farà traboccare la misura di tanti problemi irrisolti. Ricki, oscillante tra fragilità e coraggio, decide che a quel matrimonio andrà e che forse ancora qualcosa si potrà salvare, come nei recenti momenti faticosamente ritrovati con la figlia, regalando la personale luminosa voglia di vita e l’appagamento che sopraggiunge quando si è spregiudicati. Ricki vorrebbe trasmettere qualcosa di lei ma diviene sempre più consapevole della propria peculiarità. Ci sono persone che sanno vivere solamente se avulse da circostanze e da legami precostituiti, al di fuori di schemi familiari o di coppia, e tali individui non potrebbero essere differenti da quel che sono. Ne morirebbero ed ancor peggio, seminerebbero frustrazione e dolore perpetrando in una vita non inerente, una vita che non gli apparterrebbe davvero. Assistiamo ormai da tempo ad una forte crisi di modelli affettivi, abbiamo sempre dato per scontato che essi fossero imprescindibili, ma non è così.

Ricki aveva scelto la sua strada anni fa ed era questa quella giusta per se stessa, seppur in forte contraddizione con le convenzioni. Tuttavia, l’unica cosa che macera e divide davvero la donna resta la maternità; non si può assistere all’autodistruzione dei propri figli se vi è il sospetto di esserne la causa. Persino il compagno conosce il tema e lo confida a Ricki in un toccante momento di autenticità, anche lui è un padre fallito per aver inseguito una passione. Sarà proprio nella volontà comune di sconfiggere l’emozione devastante che Ricki si sentirà unita al chitarrista, e sarà proprio insieme che trasmetteranno l’unica conquista raggiunta nella loro esistenza.

Il regalo di matrimonio sarà uno scatenato concerto rock durante il pranzo – pezzi suonati con competenza come American girl di Tom Petty and the Destroyers, Bad Romance di Lady Gaga, ma soprattutto My love will not let you down di Bruce Springsteen – vecchio amico di Demme – che, almeno per qualche ora, unirà tutta la famiglia in una sinergia di benessere, quello stesso appagamento che caratterizza Ricki e che lei dona, come unico suo avere, con naturalezza ed entusiasmo, riconfigurando anche un terreno scivoloso  come il rimpianto.

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