Quesito. Si può definire cinema italiano certa roba nascosta dentro salette oscure del centro capitolino? O al massimo meneghino? Può essere definito cinema italiano quel film da lanternino e tre persone in sala, che quando le sfiori con lo sguardo ti chiedi che ci facciano là dentro e quale vita abbiano al di fuori?

Non si fa riferimento a film nascosti dal tempo e splendidi da retrospettive a tema per un pubblico colto e appassionato. E nemmeno a sorprese vere e proprie, come Il vento fa il suo giro, di Giorgio Diritti, (film passato dall’anonimato forzato alla pluricandidatura ai David di “Rondarello”) o come Cover Boy di Carmine Amoroso, amato da chiunque lo abbia visto e rivoluzionario nel supporto adoperato. O come tutti quei film validi e sconosciuti perché poco adatti al pubblico che smuove le sorti del cinema stesso. Si intendono quei giovani film italiani scarsamente segnalati dalla critica e assolutamente estranei al pubblico. Film oscurati perché poco meritevoli. Fanno parte, questi film, spesso artigianali, nati magari dalla testardaggine e dall’ossessione di un singolo, di un serio discorso sul presente cinematografico italiano? La risposta è sì. Anche se questo cinema non fa bilancio, non stabilisce nessun rapporto col pubblico e non apporta nessuna modifica sostanziale alla direzione del cinema italiano. Prendiamo alcuni casi dell’ultim’ora: La velocità della luce, di tale Andrea Papini. O L’amore non basta di Stefano Chiantini. Altro esempio recentissimo. Oppure Jimmy della collina di Enrico Pau. O Sfiorarsi di Angelo Orlando: soliti funghi di cinema italiano, che se li trovi la sera rischi di non trovarli la mattina. Film non eccelsi, a volte fragili in tutto, che passano una vita da farfalle senza nemmeno la forza di annunciare la loro presenza. Senza riuscire neanche a chiedere aiuto. Un senso però ce l’hanno. Perché possono aiutarci a trovare conferma o smentita, tematiche o stilistiche, delle tendenze di altro cinema, non solo italiano. Dentro ognuno di questi film può nascondersi un segno del tempo. Può esserci l’aborto, il digitale, il precariato, la maglietta del calciatore divo, lo slang, un palazzo, una citazione, la ricerca di un cinema diverso o la ripetizione di quello conosciuto. Insomma, a vederli si corre il rischio di non ottenere nulla, ma non si può correre quello di perdere un segnale. Ci vuole pazienza allora e un po’ di buona volontà.

La velocità della Luce è un film di genere. Come La ragazza del lago, come Fine pena mai, come L’anno Mille di Diego Febbraro. La velocità della luce è povero, sull’orlo di un precipizio dal quale però non cade mai. Anzi, negli istanti finali grida addirittura salute e coglie in chiusura il suo momento di maggior efficacia. E’ una storia di tre personaggi avvolti da un certo mistero. Un ragazzo coi capelli corti guida un’auto rossa su cui pesa la violenza legale del product placement. Soffre di terribili attacchi di claustrofobia e insegue un uomo elegante di una certa età. Che ha la barba e un misto vocale di Kabir Bedi (versione Isola dei famosi) e Bruno Ganz (versione Pane e Tulipani). Il vecchio guida una Bentley nera e bisogna riconoscergli un certo charme, una calma che mette inquietudine e un silenzio privato che invita a seguirlo. Poi c’è una ragazza che lavora in un call center senza voler aggiungere nulla al discorso sul lavoro precario cavalcato da altro cinema italiano. Ha gli occhi lucidi ed un sorriso vivace. E’ un raggio di luce annoiata che si proietta, pericolosamente, nel mistero dei due uomini che si inseguono. Tre vite si incontrano lungo l’autostrada, in un non luogo che il regista tenta di caricare di fascino e poesia. Il risultato del tentativo è come quello di tutto il film: parecchie banalità a tratti pregne di gradevoli atmosfere. Tra i due maschi nasce un gioco pericoloso, una partita a scacchi che conduce a una penombra enigmatica che resiste allo svelamento precoce. Il ragazzo è super tecnologico. Usa il computer e tutti i suoi affini per velocizzare ed ottimizzare il quotidiano. Di professione è un ladro di auto costose. Lo dice a metà film, mentre apparecchia il gioco vecchio e classico dello scambio tra vittima e carnefice. Che è poi la chiave del film. Il vecchio è il male che non sbaglia mai, che conosce a priori tutti i movimenti dell’altro e se lo cucina suonando il violino, per dirla alla Battiato. Il giovane avrebbe voluto impossessarsi della Bentley del vecchio e, per organizzare il piano, ha chiesto informazioni alla ragazza per telefono. I giovani sono la normalità che si scontra con l’orco. La velocità della luce inizia come una bufala e finisce come una mozzarella di vacca non avariata. Nel morderla si sente un po’ di succo e persino un pizzico di sapore. Ma non è un prodotto di qualità. Il finale valorizza il film, strizzando l’occhio all’inizio di Shining ed offrendo sequenze lineari di buona scenografia e validi gesti. Una scena azzeccata che fa fuori gli esseri umani e il dialogo.

La velocità della luce è un film in cui i limiti vistosi sembrano poter essere in parte riconducibili alla pochezza dei mezzi. C’è una certa alchimia che sfiora l’horror e la follia umana per poi scegliere la strada di un un noir incerto, seppure ammaccato, quando approda nel porto. A tratti si smarrisce in inquadrature virtuosamente telefonate e nell’assenza di una robusta caratterizzazione dei personaggi ma, tutto sommato, è meno fragile e più coraggioso dell'altro film, quello di Chiantini: L’amore non basta.

 Qui c’è l’amore difficile e la provincia (L’Aquila) che guarda offrendo furbi angoli ed interni disadorni. Ci sono i giovani precari e indecisi che soffricchiano silenti maledicendo la propria frustrazione. Lei è Giovanna Mezzogiorno ed è meno truccata del solito. Recita su livelli dignitosi e la sua presenza di certo non disturba il film. Anzi. Lui è un ragazzetto un po’ folleggiante che si mantiene con lavoretti di fortuna. Sa scrivere e pensare, ci dice il regista, anche se si dimentica di creare un nesso logico tra le sue performance e il suo comportamento quotidiano. Limite considerevole che aggiunge incredulità alla noia. Intorno ai due precari senza corpo galleggiano, ma mica tanto, una serie di caratteri di contorno. Che hanno nomi di una certa esperienza ma non la forza per impedire al film la deriva totale. Alessandro Haber e Rocco Papaleo sono due padri, o giù di lì. Il primo prova ad essere repellente e viscido, il secondo un super io consigliere frutto dell’inconscio, forse. Nessuno dei due costruisce qualcosa di valido o di divertente. L’amore non basta nasce e muore senza aver vissuto. Somiglia a Sfiorarsi di Angelo Orlando perché con questo film condivide il tema dell’amore difficile oggi. Ma il secondo, seppure disordinato e smarrito, contiene un’anima semplice che non appartiene a L’amore non basta.

I film sono come le persone. Al di là dei tratti somatici, della cultura, della personalità e dello spessore, hanno qualcosa che li può rendere simpati
ci e vicini. Può dipendere da piccoli particolari, da un dialogo, dalla ripetizione di un concetto, dal modo in cui si pongono e si atteggiano.  Sfiorarsi è scarso, ma autentico. Voluto, sofferto, sentito, quasi privato. Ma soprattutto somiglia a ciò che è: un piccolo film. E’ un’opera sul mondo del cinema e dell’audiovisivo. Non lontano, per tema, al più intenso e frizzante Riprendimi di Anna Negri. Lo spunto è dato da una poesia di Kieslowski che parla di persone che si sfiorano senza incontrarsi mai. Accade così che un fotografo ed un’attrice vivano le loro vite, le loro fragilità e i loro amori, sbattendo l’uno sulla spalla dell’altro senza fermarsi mai a guardarsi negli occhi. Con loro ripassiamo un attimo di presente in cui i rapporti sentimentali sono esplosivi ed esposti a seccatura precoce. Ritroviamo un’età in cui il lavoro non offre garanzie sociali o esistenziali. Ma vediamo, nel film, anche la fotografia di un ambiente caro agli autori: quello del cinema italiano, fatto di speranze e illusioni, passione, appartenenza, comunità e luoghi comuni. Il film è girato in pellicola e si avverte la mancanza dei mezzi di produzione. La fotografia è poco curata così come alcune sequenze che sembrano tirate via alla buona. La scrittura non ha la forza di sostituire la scarsità dei mezzi ed avvicinare il film alle brillantezze del piccolo gioiello. Sfiorarsi, che non dura poco, è nato da una collaborazione tra il regista Angelo Orlando e l’attrice intraprendente Valentina Carnelutti. Costei è vitale nel film come lo è più in generale in tutto il suo lavoro. Assieme al bravo regista Vittorio Moroni aveva partorito il film Tu devi essere il lupo e aveva reso possibile la sua distribuzione con un’invenzione che si è presto trasformata in moda e nuova via: la Myself, di cui Schermaglie ha già parlato. Valentina Carnelutti è anche la protagonista femminile del film Jimmy Della Collina, del regista sardo Enrico Pau.

 La pellicola costituisce il proseguimento di un lavoro già avviato dal regista con il suo film d’esordio, Pesi leggeri. Protagonista scenografica è sempre la Sardegna post-industriale e popolare della periferia cagliaritana. I ragazzi di Pau sono sempre vittima del contesto sociale e rabbiosamente indirizzati verso l’emarginazione. Quello di Pau si conferma come un cinema secco e di denuncia. Poco incline alla mescolanza dei toni e duro assai da masticare. La sua Sardegna è molto più continentale e moderna rispetto a quella di Mereu, in cui l’epica gioca un ruolo fondamentale. Jimmy è giovane e disperato, non crede nella fabbrica e finisce per scontare tutte le sue fragilità e le idiosincrasie. C’è il realismo crudo nel cinema di Pau che somiglia a quello di Marra, del primo Patierno e del secondo Gaglianone. Storie di ragazzi ai margini, soli, coinvolti in un disastro di cui sono vittime silenziose e sofferenti. A Pau mancano ancora un testo solido e una regia che sappia trasformare la violenza dello spunto in un film tosto e inattaccabile. Ma il suo cinema è autoriale e in via di sviluppo e maturazione. Continuare a seguirlo è senza dubbio d’obbligo.

Questi quattro film hanno in comune la gioventù dei protagonisti. A parte il vecchio di La velocità della luce, figura sovrumana, diabolica e quasi simbolica, tutti gli altri sono giovani. E sono alle prese con problemi di lavoro e di cuore. Col secondo in cima ai pensieri e il lavoro vissuto come male necessario. Sono storie minimali di amori mancati, sofferti e recuperati a fatica. E questo aggiunge indizi da confrontare ai temi oggi preferiti da un cinema italiano che, da due angolazioni opposte, mette i giovani al centro dei film. Il cinema italiano non è più dominato da attori di mezza età che descrivono uomini già fatti e andati a male. E’, al contrario, popolato da giovani attori e personaggi che combattono contro la frustrazione sentimentale, esistenziale e professionale. Forse perché diventare grandi è diventato impossibile. O forse perché le storie dei giovani piacciono ai vecchi e ai giovani stessi. Fatto sta che una condizione giovanile dilatata fino ad aver perso i suoi confini, presta al cinema italiano tutto il suo fianco nudo. Il mare che costituisce questa massa eterogenea unita da parole vaghe come precariato, angoscia ed instabilità, è grande e ci sono squali, pescatori e studiosi attenti e appassionati a navigarlo. La speranza di incontrare i terzi è poca ma immortale.  

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