Appartenere alla seconda generazione di una famiglia segnata dal passaggio di un genocidio è a priori una condizione problematica ; il trauma dei propri familiari vissuto di seconda mano o, molto piu spesso, passato sotto silenzio, rimosso o tabuizzato assume forme ineffabili conducendo nella dimensione insidiosa dell’immaginario.

Come é possibile confrontarsi apertamente con un passato di questo genere, in che modo procedere, quali sono le vie possibili, i sentieri e le opportunità che bisogna sapere cogliere?

Queste sono le domande che Neary Adeline Hay cineasta cresciuta a Parigi ma cambogiana di origine, affronta con grande coraggio e sensibilità in Angkar, selezionato nel concorso dedicato alle opere prime della 40 esima edizione del Cinéma du Réel.

Rifiutando di piegarsi alla legge del silenzio, la regista decide di misurarsi con il peso del passato per salvare la memoria, per fare luce sull’orrore, per comprendere, per potere vivere più serenamente nel presente e potere costruire un futuro libero dai fantasmi del dolore e della violenza.

In Cambogia dalla fine del regime Kmer in poi un velo di silenzio ha coperto il genocidio. Il paese ha velocemente girato pagina senza mai confrontarsi con il suo passato sanguinoso. Neahary Hay decide di viaggiare con suo padre Khonsali, vittima del regime Kmer, nei luoghi della sua prigionia.

Un confronto diretto con il proprio passato e con i propri aguzzini, sembra essere l’unica via per riscattare il passato e ritrovare la propria dignità. Decidendo d’imbarcarsi in quest’avventura la regista prende un grande rischio ma il risultato ci dimostra che rompere la legge del silenzio è un gesto necessario. Angkar è un film raro che c’insegna l’ascolto e la forza del perdono.

 

Il cammino che hai intrapreso con tuo padre nel film portandolo sui luoghi dove era stato prigioniero durante il periodo Kmer all’incontro dei suoi aguzzini di un tempo, è stato certamente un gesto necessario ma anche molto arduo e doloroso.

 

Il traumatismo che accompagna non solo la prima generazione, cioè quella dei miei genitori ma anche- in maniera una più indiretta ma non per questo meno insidiosa- la seconda generazione, cioè la mia spesso crea una barriera insormontabile. A conti fatti, penso sia veramente difficile fare il primo passo cercando di scavare nei fatti e nei ricordi e intraprendere delle ricerche per capire quanto è successo. Se sono diventata cineasta, l’ho fatto anche per trovare una maniera di esprimere una serie di cose su cui non avevo alcuna risposta. Nel film spiego chiaramente che i miei genitori sono stati costretti a sposarsi senza conoscersi in un campo di concentrazione Kmer. I matrimoni coatti facevano parte del programma Kmer. Paradossalmente se non ci fossero stati i Kmer rossi io non sarei mai esistita! Questo fatto ha condizionato profondamente tutta la mia esistenza.

Come hai trovato la forza di iniziare questo progetto?

Per me intraprendere questo cammino era una vera necessità anche da un punto di vista psicologico perché non sapevo nulla di quello che avevano vissuto i miei genitori. L’unica cosa che sapevo era che io ero nata da un matrimonio forzato. Quando si sa di dovere la propria stessa esistenza ad un tale dramma che, fra l’altro, non viene mai de-stigmatizzato nei discorsi dei propri genitori tutto ciò assume delle dimensioni folli nella propria mente. In primo luogo mette in forse la legittimità stassa della propria esistenza. Spesso mi sono chiesta perché esisto dicendomi che di fatto e sotto queste condizioni, non sarei mai dovuta nascere o pensando che se questo orrore indicibile non fosse esistito, non sarei mai nata…

Tutte queste ragioni mi hanno portato a fare degli studi artistici. Da un lato sentivo la necessità di esprimere attraverso l’arte delle domande profonde ed intime alla quali non riuscivo a dare nessuna risposta e, dall’altro, continuavo ad insistere con i miei genitori per convincerli a raccontarmi cosa era successo. Visto che i miei genitori si sono sempre rifiutati di parlarmi di quel periodo della loro vita, mi sono buttata a leggere tutti i libri che ho potuto trovare sul periodo dei Kmer rossi in Cambogia e ho visto tutti i film disponibili ma tutto ciò restava per me una specie di “visione”.

 

Quanto dici mi ricorda le parole del personaggio interpretato da Emmanual Riva all’inizio di Hiroshima mon amour che racconta di avere letto tutto, guardato tutto sulla tragedia di Hiroshima ma di non essere mai riuscita a cogliere quanto era successo…

 Angkar è il risultato di un processo molto intimo e profondamente personale. Non ho mai avuto la sensazione di riuscire ad identificarmi con nessuno dei film storici che racontano per filo e per segno come sono andate le cose in Cambogia o dei libri che raccontano l’orrore e, credimi, ne ho visti e letti un sacco. Ho sempre provato un distacco emotivo per tutti questi resonti. Il tono didattico, informativo in cui tutti questi materiali presentano i fatti non mi ha mai veramente toccata. Se ho voluto fare questo film è stato dunque anche per riuscire a trasmettere questa dimensione personale ed emotiva che, a mio avviso, è sempre mancata, in tutti i lavori che sono stati fatti intorno a questo soggetto, eccezion fatta, ovviamente, per il maestro Rithy Pahn che con la sua filmografia ed in particolare con L’mmage mancante (2013), il suo film più personale, racconta se stesso attraverso l’immagine.

 

Cinematograficamente parlando, dobbiamo molto a Rithy Panth che è stato il primo a fare luce sulla storia della Cambogia durante il periodo Kmer. Di fatto però Rithy Panth appartiene alla stessa generazione tuo padre…

 Sono spesso stata confrontata a Rithy Panth e mi è stato chiesto quale sia la mia posizione rispetto alla sua. La differenza saliente fra me è lui è che Rithy Panth è stato testimone di questi fatti, li ha vissuti di prima persona, io non li ho vissuti e, non avendoli vissuti, ho un rapporto completamente diverso nei loro confronti.

Io mi sono sempre nutrita di “fantasmi”. Il silezio ad oltranza dei miei genitori ha nutrito un vuoto terrificante su tutto quanto era successo durante i quattro anni del regime Kmer. Rithy Panth, al contrario, era un bambino all’epoca e ha vissuto tutte queste cose sulla sua pelle. La rabbia, l’ indigniazione e tutta l’energia che nutre la sua opera artistica proviene dalle cose che ha vissuto e visto con i suoi occhi. Proprio per questi motivi non siamo sullo stesso registro narrativo.

 

Direi che non siete soprattutto su uno stesso registro esistenziale…Partendo da questo spunto, direi che l’aspetto che mi ha incuriosito ed interessato di più nel suo film, è proprio il fatto che tu appartiene alla “seconda” generazione.

 Quanto dici è molto interessante, nessuno finora si è riferito a questo aspetto. Penso che per la seconda generazione il “fantasma” della violenza sia determinante. Quando i nostri genitoroi ci raccontano :”Ho vissuto questo e quest’altro, è stato orribile…” in chi ascolta si materializzano due tipi di violenza: una violenza fisica e una violenza psicologica. Il cammino di riconciliazione di mio padre con se stesso e con il proprio passato attraverso questo film, passa attraverso un processo di riflessione sulle sue proprie ferite ad un livello psicologico più che fisico.

Purtroppo, per quanto mi riguarda, questo percorso di riconciliazone per me non è possibile perché sono proprio queste “ferite” che mi hanno costruito, perché sono cresciuta con queste ferite. I miei genitori invece essendo stati coinvolti in maniera diretta, riescono, paradossalmente a trovare più facilmente il modo per riconciliarsi con il loro passato traumatico. Che possibilità posso avere io per arrivarci se non quella di girare un film come questo con mio padre.La mia posizione durante le riprese è stata molto delicata e difficile da gestire: quando mi trovavo di fronte a quelli che erano stati gli aguzzini di mio padre e li vedevo parlare così serenamente e tranquillamente come se niente fosse, mi veniva, a volte, lettralmente da impazzire.

Vedevo che mio padre non aveva nessun intenzione di attaccarli. Volevo assolutamente rispettare questo suo desiderio ma, non ti nascondo che, a volte, da dietro la mia cinepresa avevo voglia di scuotere gli interlocutori di mio padre e di dire al boia dei Kmer:” Ma insomma, quand’è che ti deciderai a confessare che sei stato proprio tu ad uccidere tutta questa gente! ”

Non l’ho mai fatto perché avevo deciso di prendere su di me tutto questo peso e di non intervenire mai durante il rodaggio.

 

Alla fine del film, prima dei titoli di coda, l’identità delle persone filmate e la loro “funzione” in seno ai Kmer ci viene finalmente svelata. Puoi spiegarmi il perché di questa tua decisione?

 In effetti, proprio prima dei titoli di coda, ho deciso di mettere nero su bianco sulla foto di ognuna di queste persone, il loro nome e il loro ruolo in seno al’organizzazione Kmer. Per me era un modo per dire finalmente: ecco questa sono io!

Pur comprendendo la necessità di riconciliazione e di perdono di mio padre, non potevo restare una semplice stettatrice di questi dialoghi fra lui e i suoi vecchi aguzzini senza dire la mia alla fine del film.

L’atteggiamento conciliante di mio padre era molto comodo e conveniente per loro; non sono infatti mai stati costretti ad ammettere i loro misfatti e si sono nascosti comodamente dietro le loro scuse ma io sapevo benissimo quello che avevano fatto perché mio padre me lo aveva già raccontato..La parte finale del film con i ritratti dei carnefici associati all’enumerazione dei loro crimini è stato il mio modo per affermare la mia presenza e la mia esistenza, la rabbia e il rancore sordo nel quale sono cresciuta che mi ha sempre “abitato” e di cui sono fatta!

Si tratta di una collera molto più violenta di quella dei miei dovuta al fatto di non avere vissuto questi eventi di prima persona ma di averne subito ugualmente il trauma. Questo tipo di trauma genera dei cambiamenti radicali su chi li subisce; il suo rapporto con la violenza e il suo rapporto agli altri ne sono profondamente influenzati. I miei genitori sono stati stigmatizzati da quest’esperienza.

 

Quali sono state, in questo contesto molto specifico, le tue scelte estetiche riguardo al tipo di inquadratura e alla scala dei piani?

In un primo tempo ho filmato in modo abbastanza spontaneo. Ho trascorso sei mesi con mio padre in Cambogia e, durante questo periodo, siamo ritornati più volte nei villaggi in cui mio padre era stato deportato durante il periodo Kmer. Ogni volta che siamo andati nei villaggi, siamo rimasti sul luogo da una a due settimane.

La vita in questi posti è molto arcaica. Ovviamente non ci sono alberghi. Noi abitavamo presso varie famiglie del luogo, ci lavavamo con l’acqua del pozzo, magiavamo quello che c’era, perfino dei ragni! (ride) Mio padre ed io eravamo completamente in immersione totale….

 

 

 

 

 

Se ti è piaciuto quello che hai letto, perché non lo condividi?
  •  
  •  
  •  
  •  
  •  
  •  
  •  
  •  
  •  
  •  

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.