Distiguished flying cross, ricompensato al Cinéma du Réel con il prestigioso Prix international de la Scam,  è un documentario inquietante e sottilmente ambiguo. Wilkerson senior, pilota dell’aviazione americana, é decorato alla fine della guerra del Vietnam con la Distiguished flying cross, la Medaglia d’onore al merito. Quarant’anni dopo l’uomo racconta ai suoi due figli le gesta che gli valsero questo riconoscimento.

Lo spazio del film è un luogo di narrazione opaco, lacunare ed irritante occupato da un fiume di parole raccontate con malcelato imbarazzo. La messa in scena di Travis Wilkerson, figlio dell’eroe di guerra, é severa e rigorosa. Il dispositivo, ispirato a detta del regista dalle inquadrature di Ozu, è in sé semplice: un tavolo e tre sedie, una macchina da presa fissa e, a parte qualche breve istante, un’inquadratura frontale in campo medio. Il padre-testimone è piazzato al centro di fronte all’obiettivo mentre i suoi due figli, seduti rispettivamente a destra e a sinistra, sono ripresi di profilo. La scelta di filmare i personaggi da una certa distanza accentua il valore formale della scena mettendo in evidenza la loro posizione simmetrica e le linee di fuga del tavolo. Sul muro di fondo, alle spalle dei protagonisti, sono appese  tre fotografie in bianco e nero ed una piccola lampada su un lato che rompe l’ordine geometrico del set – di fatto la sala da pranzo del regista – per introdurre, ancora prima del discorso stesso, un senso di leggero malessere. Proprio al di sopra della testa del padre si staglia, come un’aureola paradossale, il ritratto di Majakofsky. Tre bottiglie e tre bicchieri occupano la superficie del tavolo. Come in una specie di ultima cena rituale i tre personaggi discutono in modo conviviale bevendo della birra.

Discretamente incoraggiato dai suoi figli, che restano degli interlocutori neutri e discreti durante tutta la durata del film, Wilkerson senior si lancia in un lungo monologo sulle sue avventure di guerra in Vietnam. Seguendo una linea narrativa continua l’uomo racconta gli episodi salienti di questo periodo della sua vita dal momento in cui si è arruolato nell’esercito americano come pilota d’elicottero, al momento in cui, dopo essere stato ferito al braccio, è rientrato in patria. Chi si aspettasse un lungo mea culpa o una litania sui mali della guerra in Vietnam resterà deluso: dal discorso dell’uomo non traspare, a prima vista almeno, alcuna tristezza o frustrazione ma piuttosto una specie di orgoglio incosciente e fiero. Wilkerson sembra ricordarsi di questa parte della sua vita con tutta l’energia indomita, l’imprudenza e la spensieratezza dei suoi vent’anni. Il racconto della sua partecipazione alla guerra in Vietnam é quello di una grande avventura oscura, meravigliosa, epica che il giovane pilota ha attraversato  praticamente indenne. Nonostante il suo elicottero sia stato più volte colpito i proiettili sembrano averlo risparmiato; un tiro in pieno cuore bloccato dal giubbotto antiproiettile ed una frattura multipla al braccio verso la fine del suo soggiorno in Vietnam, sembrano essere state le sue uniche ferite.

Le parole evocano un mondo irreale e mitico percorso, dal giovane uomo di allora, come in uno stato di trance. Ascoltandolo delle immagini sparse ed agghiaccianti prendono forma nel nostro immaginario: i Vietkong che cercano di colpire gli elicotteri tirando delle frecce, un soldato che, puntando dal suolo, riesce a ferirlo ma viene letteralmente disintegrato un attimo dopo da una bomba…

Dall’alto dei cieli Wilkerson sembra essere passato in mezzo agli orrori della guerra conservando uno sguardo distaccato e nervosamente divertito. La distanza dell’obiettivo non ci permette di scrutare l’espressione del suo volto; i tratti della fisionomia e lo sguardo, che si intuisce vivacissimo, restano in secondo piano. In questo contesto la gestualità e soprattutto la voce diventano i veri protagonisti della narrazione. Così lo scatto della parola, la velocità della locuzione, l’inflessione costantemente tesa ed i frequenti scoppi di risa che punteggiano il suo racconto diventano altrettanti segnali di un disagio profondo che l’uomo porta in sé nonostante il suo atteggiamento, a prima vista, spavaldo ed irriverente.

Intorno al nucleo centrale delle confessioni del padre il regista costruisce, con l’introduzione di una serie di didascalie scritte e l’impiego di materiali d’archivio, un tessuto filmico complesso di cui questi elementi costituiscono altrettanti tasselli.

Se le didascalie, commento e glossa del regista, ci aiutano a prendere le distanze rispetto all’esposizione dei fatti, l’irrompere nel presente delle immagini filmate dai  soldati americani che presero parte alle operazioni, fanno eco ai discorsi dell’uomo. Da queste immagini si emana un fascino muto, una sensazione ipnotica che seduce impercettibilmente il nostro sguardo. La bellezza del colore e la grana dell’immagine ci lasciano dimenticare a momenti che quanto passa davanti ai nostri occhi è il teatro di una realtà efferata ed assurda. I primi estratti sembrano innocui ed inoffensivi. Su  un piccolo palco un’ orchestra di vietnamiti suona accompagnata da una ragazza che canta nella sua lingua materna; delle giovani donne del luogo, elegantemente vestite e dei ragazzi americani in abiti civili  ballano senza convinzione, degli altri soldati seduti ai margini li osservano mollemente. Siamo qui ben lontani dal pathos esaltato e sanguinario di tante ricostruzioni cinematografiche su questa guerra, ma proprio per questo le immagini che vediamo sono ancora più inquietanti. Man mano che il racconto di Wilkerson senior avanza verso il suo apice – l’ultima battaglia e il ritorno dal Vietnam – gli estratti d’archivio, montati in parallelo, ci mostrano delle azioni sempre più crudeli filmate con indolenza. Un soldato prende di mira un bue che gli sta placidamente di fronte e gli spara fra gli occhi. Un gruppo di militari scatta delle foto di cadaveri; qualcuno mette un asso di picche fra le labbra semiaperte di un vietnamita moribondo. Di seguito il gruppo avanza lentamente in un villaggio fra gruppi di bambini che guardano terrorizzati l’obiettivo. Un soldato si ferma infine davanti ad una capanna appiccando tranquillamente fuoco al tetto di paglia con un accendino. Nell’ultimo frammento un giovane soldato americano riposa sotto un albero; qualcuno gli ingiunge dal fuori campo di sorridere ma il suo sorriso, breve e forzato, si spegne in un attimo per lasciare spazio ad un’espressione d’infinita tristezza.

Il documentario si conclude con la lettura, da parte del regista stesso, del documento ufficiale che accompagna, la medaglia d’onore al merito.

Scomodo ed irritante Distinguished Flying cross è un pugno nello stomaco e solleva varie questioni di fondo. Qual é il sistema di rappresentazione della realtà, la forza evocatrice del discorso, la fallacità e il potere di manipolazione del racconto memoriale, qual è il valore delle dichiarazioni di un testimone oculare? L’immagine che ne ricaviamo non è per forza illusoria e mendace cioè, in fin dei conti, pura finzione?

Per capire meglio l’intenzione che anima questo lavoro bisogna sapere che Travis Wilkerson è un cineasta militante, un attivista pacifista che porta avanti da anni negli Stati Uniti un discorso cinematografico solitario e radicale, condiviso con pochi altri artisti politicamente impegnati come John Gianvito. La forza e l’originalità di Distinguished Flying cr
oss
consiste proprio nel non fare ricorso ad una retorica prevedibile e scontata ma di costruire il suo discorso controcorrente attraverso un atto di equilibrio precario fra un ritratto della figura paterna pieno di affetto, rispetto e comprensione e l’immagine di un uomo che sembra incarnare pienamente i valori dell’eroismo yankee. La reazione di chi osserva deve sorgere proprio grazie all’ambiguità del linguaggio del film. Come il regista stesso ha spiegato: “ Odio i film di guerra che si presentano palesemente come anti-guerra mentre sono quello che io definisco della pornografia militare (…) . Volevo dunque trovare il modo di raccontare la storia di mio padre senza presentarlo come una vittima, perché penso che la guerra in Vietnam sia stata una guerra criminale e che le vittime sono stati i vietnamiti. Ho cercato quindi tutti i modi per rompere l’empatia naturale che sarebbe potuta sorgere nei suoi confronti.”

Traver Wilkerson lascia coscientemente il contesto della storia del padre fuori dal film; l’uomo ha in realtà sofferto a lungo degli strascici del sua partecipazione alla guerra in Vietnam e si è impegnato subito nel campo del pacifismo. Nel corso degli anni seguenti non ha parlato quasi mai delle sue esperienze militari, a più di trent’anni di distanza la pellicola è diventata, paradossalmente, il suo primo vero luogo di confessione. Vista sotto questa luce, la sua inquietante testimonianza acquista tutto un altro peso.

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