[*1/2]- “Ci troviamo costantemente di fronte a cose che non comprendiamo. Non capiamo bene neppure noi stessi. Il compito di un artista è affrontare la mancanza di comprensione e i misteri ricorrenti. E credere negli effetti positivi del mistero e della possibilità di comunicare”, diceva l’eclettica e anticonformista regista Agnès Varda un po’ di anni fa.

Atom Egoyan nasce a Il Cairo, nel 1960, da due rifugiati armeni, entrambi pittori, che gli affibbiano questo nome per celebrare l’avvento dell’energia atomica in Egitto. Pochi anni dopo (il panarabismo di Nasser era al massimo quando la comunità armena iniziò una nuova diaspora) l’intera famiglia si trasferisce in Canada dove apre un negozio di arredamento, l’Ego Interiors. In questo viaggio gli Yeghoyan abbandonano il loro  cognome originario americanizzandolo in Egoyan.

In qualche modo influenzato più dall’aspetto dinamico che da quello ideologico intrinseco al proprio nome, il giovane Atom riesce in una manciata di anni a divenire uno dei registi più interessanti e premiati degli ultimi decenni. Quello che insieme a pochi altri meglio ha rappresentato le fascinazioni, le ambiguità e le contraddizioni della modernità: le sfide cioè che un sistema sempre più complesso, impastato di tante variabili, pone all’impegno dell’uomo al fine di accrescerne la conoscenza. Il lavoro di Egoyan si rivela particolarmente coraggioso là dove non elude il difficile e faticoso problema delle “scelte preliminari”, che possiamo racchiudere nelle due elementari -eticamente parlando- funzioni del cosa mostrare e del come riuscire a farlo senza incorrere nella collusione con ciò che si rappresenta (sui diversi modi di rappresentazione vedi il bel libro di Antonio Pascale ” Questo è il paese che non amo“, ed. Minimum Fax). E poi il riccorrente tema del dubbio e del confronto (sempre più negato) con l’altro da sé, che Egoyan si porta dentro da sempre e che caratterizza tanti suoi film. In questo senso vengono in mente Black Comedy, Mondo Virtuale, Exotica e Il dolce domani (probabile apice, quanto a bellezza e profondità, della produzione egoyana). Le tematiche legate ai rapporti familiari, alla comunicazione e al sesso (di per sé già strettamente comunicanti) vengono focalizzate da Egoyan nel contenitore mediatico che le rappresenta (l’immagine), elemento oramai sempre più determinante nel formare il pensiero (immaginario) di chi quel mezzo dovrebbe controllare. Lo sguardo del regista non sfugge il confronto con l’invasività e la perversione dei mezzi di comunicazione (molti dei personaggi egoyani sono dei voyeuristi), ma lo fa producendo un’immagine non quotidiana, non televisiva, un’immagine che si ricollega piuttosto al cinema hollywoodiano classico (producendo uno straniamento nello spettatore). E questa dialettica tra immagine, chiamiamola così, di fiction e immagine meta-cinematografica produce nello spettatore un duplice moto spiazzante (dunque un invito a muoversi dall’ovvio): da una parte c’è il piacere (e dunque anche il possibile dolore) di lasciarsi rapire dal film e di identificarsi nei personaggi e nelle situazioni rappresentate, dall’altra, complice la presenza ricorrente e abbastanza ossessiva di televisioni, telecamere, specchi e vetri (mai stati così tanti come in questo Chloe), c’è il tentativo di disporre lo spettatore in un atteggiamento più riflessivo. Un atteggiamento cioè utile a comprendere il funzionamento dei meccanismi tipici di alienazione dell’era delle immagini e delle relative conseguenze sui comportamenti umani, che da una techno (e abbastanza porno) invasione di tale portata ne escono sempre più frustrati e nevrotizzati.

Ma il rapporto tra la distanza e la fascinazione cinematografica, poli opposti in cui svolgere l’indagine tesa ad individuare gli errori e le frane (anzitutto morali) di tanti uomini in apparenza forti (pensiamo, ad esempio, all’avvocato de Il dolce domani), sembra in Chloe subire una brusca battuta d’arresto. Il rapporto risulta sbilanciato, cioè, verso lo “sguardo hollywoodiano” del regista, laddove in questo caso l’immagine patinata non viene associata al vuoto morale che ne sottende (e giustifica) il possibile crollo, quanto piuttosto, abbondando di spiegazioni e giustificazioni, che sono gli elementi caratteristici della narrazione classica, l’intreccio finisce per sovraccaricarla svuotandola di senso.

Chloe, remake del film francese Nathalie, racconta la crisi di mezza età di una donna emancipata (di mestiere fa la ginecologa) e ancora attraente, della sua ossessione di controllo -tanto nel lavoro, dove dispensa consigli abbastanza chirurgici alle pazienti che le confidano i propri problemi sessuali, quanto nella vita privata, vedi il rapporto con il marito e con il figlio- e della sua speculare insicurezza nel sentirsi trascurata e tradita dal marito (docente universitario) che nelle sue fantasie auto-persecutorie le preferisce le studentesse. Intreccerà una relazione con una ragazza molto più giovane assoldata per sedurre il (narciso) marito. Ovviamente la situazione le sfuggirà di mano e con essa il senso d’onnipotenza di poter controllare la vita degli altri. Sul piano psicologico –abbastanza tagliato con l’accetta- c’è da osservare che la donna vedrà in Chloe la ragazza bellissima che è stata mentre l’altra proietterà sulla protagonista il bisogno di ritrovare la propria madre, la cui perdita si intuisce avvenuta in età prematura. In ultimo, non possiamo ignorare con un certo fastidio come il mestiere di “escort” esercitato dalla (ben poco) misteriosa ragazza, oltre che la deriva patologica e violenta imboccata dalla sua psiche, connotino (non senza moralismo) il piacere nel senso della condanna.

Poca attenzione alla complessità dei personaggi, insomma, nessun allarme sul contesto sociale che molto contribuisce alla crisi della coppia tradizionale, perenne attesa (frustrata) su un’apertura di senso che sia anzitutto respiro dell’immagine, in Egoyan mai stata tanto chiusa e banale, assenza totale di guerriglia (“cinema di papà”, avrebbero detto una volta). L’interpretazione, al solito magnificamente scorticata, di Julianne Moore non riesce a mitigare la sgradita sensazione di prevedibilità e semplificazione che svolazza (pesantemente) sopra tutta la visione.

Per approfondire il cinema di Atom Egoyan senza annoiarsi, si può leggere l’interessante libro di Fabiana De Bellis: “Armenia Canada Ararat, Il cinema di Atom Egoyan“.

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