di Roberto Cirillo/ Lorenzo Mattotti, per il suo passaggio (che esordio non è, galeotto fu l’assolutamente da recuperare Peur(s) du noir del 2008, da noi inedito, oltre al Pinocchio di D’Alò) dalla pagina disegnata (che siano graphic novel, le copertine del New Yorker o le locandine dei festival cinematografici) al grande schermo, sceglie di affidarsi (diversamente dal collega Igort) non al live action, ma all’animazione. Non solo: come Gipi, anziché trasporre una propria opera (il notevolissimo Stigmate o il recente Ghirlanda, che molto bene si presterebbero), sceglie un’opera altrui. Non un fumetto, ma un libro. E che libro. Di Buzzati. Che, en passant, si dà il caso fosse l’autore, forse, della prima graphic novel di tutti i tempi (moderni): Poema a fumetti (anno di grazia 1969).

Il film comincia in una selva oscura dal tratteggio fittissimo, tipicamente mattottiana, giacché il maestro del colore è versatissimo anche nel chiaroscuro (si veda Chimera od Oltremai), ma mai così corposa, da cui emergono non Dante e la lonza, ma Gedeone (doppiato da uno smagliante Antonio Albanese) e Almerina: un cantastorie e la sua compagna di strada. E la storia ce la cantano e ce la contano. Quella della famosa invasione degli orsi in Sicilia. Una storia che Mattotti arricchisce di influenze pescate da altre opere buzzatiane, in una vera e propria dichiarazione d’amore: da I miracoli di Val Morel, con l’incursione del Gatto Mammone, alle scolte della Fortezza Bastiani (qui cittadella) che, stavolta, hanno modo di fronteggiarli i barbari. Sotto le spoglie di placidi plantigradi (ma riusciranno questi, a loro volta, a riconoscere lo straniero da sé? Alert spoiler: su questo si gioca tutto).

A colpire, dell’animazione, sono gli sfondi, preziosi e pastellati, dalle forme sinuose e gittanti: dalle montagne smussate (fra le quali Buzzati era nato) di una Sicilia gibbosa, tutta bitorzoli, a una Città fatta d’angoli acuti, come prore di transatlantici, di vialoni spogli e circumnavigati da colonnati a perdita d’occhio, stirati fino a forare il punto di fuga, e palazzi reali che sembrano crisoelefantine basiliche bizantineggianti: fra le Mille e una notte e la ligne claire di De Chirico è tutto un universo di affondi e rientranze, calanchi e fiordi verticali, in un bailamme sinusoidale, nel quale Mattotti (il che lo rende un regista vero) sa sempre dove piazzare la camera.

Fino a metà film, tutto ciò riesce a impastoiare un piacevolissimo divertissement, affabulante e gustoso per tutti i palati, oltreché sentito pegno d’amore per uno degli autori più notevoli della nostra letteratura (e forse ancora da riscoprire a dovere). Con un paio di apici
rimarchevoli: la marcia dei cinghiali di Molfetta (discendenti diretti degli artiodottoli del rancoros dio Nume della Principessa Mononoke) e il montaggio parallelo fra gli acrobati del circo che voltolano sul vuoto e i soldati che carambolano dai merli torreggianti sotto i colpi di ursidi appollottolati come nel III livello di Altered Beast (classico picchiaduro dell’88), a ribadire, con una suggestione, l’insignificanza di quel gioco a somma zero che è l’umana guerra. Mattotti riesce così a soddisfare l’occhio ma anche a inchiodare sulla sedia, come sanno fare le fiabe classiche, creando una tensione che è reale compartecipazione alle vicende e ai loro protagonisti (anche se si tratta di orsi dagli occhi puntinati e l’espressione ridotta). Fino al twist mediano: lì si innesta un altro film, se possibile, ancora migliore.

Laddove, infatti, i nostri narratori si scambiano di posto con l’anziano orso grigio (un Camilleri che impreziosce, con la sua voce arrochita, e qui l’omaggio si fa duplice), parte la contronarrazione di questi tempi in cui la verità (insieme all’alter) è aliena, e si assopisce la voce stemperata dei pochi custodi. Ed ecco, allora, che i ruoli si ribaltano e il testo si fa concreto e moderno. Qui, abbiamo il j’accuse d’un progresso fasullo, d’un moderno contaminatore, che plagia e plasma, ma anche di una generazione che soffoca le nuove, non le riconosce, non distingue lo sguardo, afflitto dalla cataratta della nostalgia. Il conflitto intergenerazionale segna il passaggio di testimone: il vecchio orso (Toni Servillo, anch’egli grande) langue malinconico nel mondo degli uomini, rimpiangendo le montagne (che oniricamente lo invocano), senza accorgersi della corruzione del suo popolo, specie del suo braccio destro, Salnitro (Corrado Guzzanti, e che te lo dico a fare?).

Bellissime due stoccate, in particolare: il re Leonzio che, in un paese interculturale, si ostina a vedere due popoli anziché uno, peccando della pregiudizievole superbia di chi si arrocca, trincerandosi sul passato, dove l’altro non è incluso ma integrato, inserito ma distinto, che è terribilmente contemporaneo. L’altra è quando, alla vista delle riserve auree depredate, s’indigna sbottando: “Chi sarebbe così spregevole da attaccare il bene comune?”. Ma Leonzio è ottenebrato e il suo regno destinato a una parabola calante, una breve digressione nel normale scorrere della storia umana, dove troverà spazio giustizia e redenzione, sì, ma ben poca speranza. Ballando, come sono venuti, gli orsi color carminio, in ordinata fila indiana, serreranno i ranghi e faranno ritorno sulle montagne, incassando la sconfitta dal sapore amaro del mancato sincretismo. È la cronistoria d’un incontro naufragato, fra due mondi, due diversi modelli culturali, che non hanno saputo dialogare e confrontarsi. Dietro l’apparenza della festa, quindi, si cela un epilogo, quello d’una resa innanzi all’inconciliabilità.

Difficile non scrutare, allora, quanto sia attuale il racconto del trapasso di un mondo finito, inintegrabile, che non ha potuto, o meglio, non si è voluto rinnovare, incamerandone i valori nel paradigma della modernità. Più semplice sbarazzarsene, ricusarlo e accantonarlo. Come pure sta facendo, il mondo occidentale, con gli orsi che calano, bussando alle nostre porte, per esigere il maltolto, il futuro rapito. Il codazzo di orsi porta via con sé il ritmo lento della natura, quella felicità irta e selvaggia, che nella cittadella degli uomini può essere solo soffocata. Termina il discorso del baffuto vecchio orso che però (c’è un però) rivela un ultimo scampolo, ma solo alle giovani orecchie della generazione ancora di là da venire, a cui quest’opera, più che a chiunque altri, si rivolge.

In Tonio, infatti, il principe ed erede al trono, quello che degli uomini (dalla bella ballerina al mago De Ambrosiis, un po’ Don Abbondio un po’ Grillo Parlante, in salsa veneta) ha saputo prendere il meglio, si riscontra il vero erede, Edipo sconfitto e Telemaco trionfante, che il padre sa superare e la tradizione, conoscendola, tradire, per rinnovarla in altro grazie alla trasfusione con l’altro. E allora questa famosa invasione degli orsi non ci sarà stata, ma il loro olocausto, questo sì, e tuttavia per chi saprà far dialogare il primo altro, il padre/Leonzio, col suo retaggio culturale, con il Terzo, il mondo umano, traendo da entrambi il meglio, con apertura e non chiusura (vedi il peccato di Leonzio che ai suoi orsi riconosceva solo virtù), potrà esserci la vera speranza e un progresso reale. Che senza il plasma vitale dell’altro, i tartari, senza i barbari della poesia di Coetzee (scardinati dalla ricerca continua del nemico esteriore), la linea di sangue si mantiene pura ma, inaridita, si stinge fino a estinguersi. Ce lo dimostra, oltreché metaforicamente, anche metatestualmente Mattotti stesso, che sceglie una materia altra (non sua) cui applica l’arte sua (ma anche altra, quella della CGI al servizio della storia e dell’animazione, scompaginando la gabbia bidimensionale che la tratteneva), facendo parlare questi due mondi, l’animazione e il fumetto, in una cosa nuova, terza, che sopravanzi il contributo di entrambi, senza nulla togliere a nessuno.

Opera bella e necessaria, giacché se c’è qualcosa che ai bambini andrebbe insegnato (ma, in realtà, già sanno tutto e siamo noi che dovremmo apprendere da loro, Gaber ce lo ricordava), in un contesto che la globalizzazione ha irreversibilmente allargato, rendendoci, giocoforza, interdipendenti, è che non ci sono caverne nelle quali potersi rifugiare, o picchi di montagne che tengano dove l’uomo non può spingersi, o letarghi così profondi dove l’altro non può raggiungerci, se non il sonno indotto della ragione. E quella è l’unica fantasia onirica che non vale la pena di vivere o vedere.

 

 

 

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