Carne, muscoli, sudore: il corpo di un uomo che si ribella e si oppone, accanitamente, alla sua immobilità forzata, è al centro di Porfirio di Alejandro Landez. Questo corpo esposto, messo in scena in tutti i suoi dettagli, senza imbarazzo e falsi pudori è il corpo di Porfirio, un cinquantenne colombiano, colpito accidentalmente alla spina dorsale dal proiettile di un poliziotto e rimasto, da allora, paralizzato agli arti inferiori.

É stato un fatto di cronaca che ha spinto il regista a cercare, sei anni fa, Porfirio in una cittadina sperduta ai margini dell’Amazzonia, dando così inizio a questo progetto. A metà strada fra documentario e finzione iperrealistica, Porfirio è un vero pugno nello stomaco, una di quelle pellicole che prendono lo spettatore in ostaggio fin dalla primissima scena: un uomo di mezza età nudo, seduto su una sedia a rotelle, viene ripreso di spalle mentre è in atto di defecare nel cortile della sua casa, mentre suo figlio raccoglie con un pezzo di carta gli escrementi e l’aiuta a lavarsi. Alejandro Landes inizia il suo film in media res: la quotidianità dei personaggi é presentata senza mediazione e senza spiegazioni, prima di apprendere “il perché” ci viene mostrato “il come”.

La sceneggiatura dosa con parsimonia le informazioni sul passato del protagonista; la trama si costruisce lentamente, brandelli di biografia vengono a completare, in modo sporadico, il puzzle della storia di Porfirio. Durante i primi due terzi del film l’atmosfera è pesante, stagnante, monotona: il plot gira intorno all’osservazione di gesti, abitudini, azioni reiterate. Porfirio si guadagna da vivere vendendo ‘minuti’ sul suo cellulare, il suo spazio vitale si limita ormai alla sua casa – due stanze arredate in modo spartano, un cortile sul retro ed una piccola veranda sulla strada – che condivide con il figlio Lissin, un ragazzo esile e indolente, ed una giovane donna, Jasbleidy, la sua amante. Per lavarsi o fare i suoi bisogni Porfirio – ritratto, durante la maggior parte del film, seminudo – dipende completamente dagli altri. Fiero e combattivo, più che mendicare, l’uomo esige l’aiuto di chi gli sta intorno: ricorda a suo figlio che ha il dovere di occuparsi di lui e considera naturali ed ovvie le premure della sua giovanissima amante. Ciononostante, quando é solo, Porfirio deve battersi duramente per fare un qualsiasi movimento. Letteralmente come un pesce fuor d’acqua, l’uomo spinge il suo corpo paralizzato nello spazio guadagnando millimetro su millimetro al prezzo di sforzi enormi. La cinepresa di Landez segue questa lotta da vicino: con precisione e senza inibizioni si attarda a filmare i tentativi di Porfirio per arrivare a rigirarsi nel letto, cogliere un oggetto, grattarsi la schiena o issarsi sulla sedia a rotelle.

Il film è la cronaca di una resistenza: indomito, Porfirio non si rassegna passivamente alla sua condizione, reagisce accanitamente alla menomazione fisica, vuole restare forte, con un impegno continuo ed estenuante cerca di tenersi in forma, fa esercizio, si allena. Landez opta, nella messa in scena, per inquadrature in piani fissi, frontali, ad altezza d’uomo: le membra di Porfirio, il suo volto campeggiano costantemente al centro dell’immagine, la riempiono, la dominano. Questa scelta stilistica radicale corrisponde e riflette l’essenza stessa del personaggio, la sua condizione di vita. La composizione all’interno del quadro è spesso spezzata, monca, letteralmente mutilata come lo è, in realtà, il corpo stesso di Porfirio: il quadro spesso taglia fuori la testa, o un’altra parte del corpo, di chi gli sta intorno, frantuma lo spazio che lo circonda. La quasi totalità del film si svolge nello spazio ristretto e confinato della casa, ritrae un universo asfittico, una segregazione forzata: talvolta la casa è filmata di fronte ma l’angolo di ripresa resta pur sempre limitato alla sola facciata escludendo tutta la zona limitrofa. La descrizione dell’esterno è affidata al suono: voci di venditori ambulanti e di bimbi che giocano, suoni di clacson, rumori di macchine e motorini di passaggio, il rombo di un aereo che vola a bassa altitudine o le eliche di un elicottero compongono il tessuto sonoro di un’umanità in movimento che rimanda costantemente all’immobilità del protagonista, al suo isolamento. Il rumore del mondo è un’eco lontano, irraggiungibile per il corpo che si staglia in primo piano.

Man mano che la vicenda avanza la personalità del suo protagonista sembra definirsi con maggiore chiarezza ed acquistare un vero spessore; con una serie di brevi pennellate Landez tratteggia sensibilmente l’universo affettivo ed emotivo di Porfirio. Dietro le apparenze di un individuo determinato, caparbio, esigente e sicuro di sé affiora poco a poco l’animo di un uomo che soffre, conscio dei suoi limiti, sensibile ed ansioso di perdere l’affetto della giovane donna che ama così teneramente. Alla fine di una scena di sesso fra Porfirio e Jasbleidy, filmata con crudo realismo, la facciata dura ed orgogliosa dell’uomo si sgretola per lasciare emergere tutta la sua insicurezza e la sua pena; abbracciando con dolcezza la sua donna Porfirio si mette a cantare a mezza voce, goffo ed impacciato, una serie di strofe d’amore che ha composto per lei. Questo episodio segna un giro di boa nello sviluppo narrativo del film: a partire da questo momento infatti Porfirio decide di prendere in mano la situazione, di affrontare il mondo esterno. Esce di casa con la sua sedia a rotelle per chiedere giustizia e rivendicare finalmente l’indennità dovutagli dallo Stato. Quando però si rende conto che tutti i suoi sforzi sono destinati a restare vani, l’uomo sceglie di sfidare, con un atto disperato, le autorità che non prestano la minima attenzione al suo caso.

Alejandro Landez riesce a tenere fino alla fine, con rigore, uno sviluppo narrativo in crescendo e crea, nell’ultima sequenza, un vero colpo di scena: con due bombe a mano nascoste fra i suoi pannoloni per l’incontinenza Porfirio dirotta un aereo diretto a Bogotà. Di questo episodio il film non ci mostra che l’inizio; i preparativi di Porfirio a casa, il suo arrivo all’aeroporto ed il suo passaggio riuscito attraverso i vari controlli di sicurezza. Poi interviene un’ellissi. Nell’inquadratura seguente vediamo un gruppo di forze speciali far saltare in aria un ordigno esplosivo. Qui termina il film di finzione. Nell’ultima inquadratura della pellicola Porfirio, da personaggio cinematografico ridiventa se stesso; un individuo concreto con nome e cognome, Porfirio Ramirez Aldana, il ‘pirata dell’aria’. Questo é il momento più commovente, più calorosamente umano del film: con lo sguardo dritto nell’obiettivo, rompendo i canoni del film della finzione, Porfirio ci canta con voce tremante in una filastrocca, composta da lui stesso, il suo destino. Dai suoi occhi, che ci osservano con infinita tristezza, sorge una lacrima. Cut!

Se ti è piaciuto quello che hai letto, perché non lo condividi?
  •  
  •  
  •  
  •  
  •  
  •  
  •  
  •  
  •  
  •  

One thought on “Cannes 64/Quinzaine PORFIRIO, RITRATTO DI UN CORPO IN RIVOLTA

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.