Il festival di Karovy Vary ha festeggiato quest’anno il suo cinquantesimo anniversario dimostrando tutta la sua vitalità con una programmazione che, pur tenendo da conto l’aspetto storico del cinema, è soprattutto rivolta verso il futuro e ponenendsi come un vero laboratorio di ricerca dei giovani talenti di domani. Chi arrivasse per la prima volta a Kalovy Vary – una cittadina termale a due ore da Praga che conserva intatto il fascino del suo patrimonio architettonico – sarebbe senza dubbio sorpreso dalle masse di gente che affollano le sale e i vari siti della manifestazione. Si tratta di un pubblico vivace e in gran parte molto giovane che crea un’atmosfera festiva ed effervescente di giorno e di notte. Stando alle statistiche pubblicate a fine festival, quest’anno sono stati mostrati 233 film nel corso di 488 proiezioni fra cui: 35 prime mondiali, prime internazionali e 12 prime europee. Il numero degli accreditati – professionisti e non – risale a 12857 mentre sono stati venduti ben 135.105 biglietti.
Con una verve e un’energia invidiabile, Karel Och, direttore artistico del festival, tiene in mano le redini di questo importante evento cinematografico da cinque anni a questa parte. Karlovy Vary, non bisogna dimenticarlo, è un festival di categoria A. Sorridente, aperto e disponibilissimo, come pochi lo sono fra quanti rivestono una carica come la sua, Karel Och sembra avere il dono dell’ubiquità; passa dal suo ufficio, alle sale per presentare i film, partecipa a vari eventi collaterali e si prende personalmente cura dei suoi ospiti, senza soluzione di continuità.  In un italiano ineccepibile, Karel Och mi ha parlato  della sua passione per il cinema,  del suo lavoro e dello spirito che anima il festival di Karlovy Vary.

Il festival di Karlovy Vary ha festeggiato quest’anno la sua cinquantesima edizione; cosa significa per lei questa data dal forte valore simbolico?

Per me, per noi tutti, questo é un momento molto emozionante ed molto importante appunto perché la storia del festival é veramente straordinaria. Il festival di Karlovy Vary è stato fondato nel 1946 – nello stesso anno di Cannes e di Locarno- ma ha dovuto attraversare un lungo periodo buio, i cosiddetti anni ‘socialisti’ e ‘comunisti ‘ sotto un regime in cui non c’era libertà d’espressione. Ovviamente, durante tutta quell’epoca  non si può parlare di una vera e propria libertà riguardo alle scelte artistiche del festival. Per darti un’idea concreta della situazione basti immaginare che in quegli anni il direttore del festival era, allo stesso tempo, anche il capo della giuria. In questo modo ci si assicurava a priori che la giuria facesse vincere i film ‘giusti’!

Lei ha iniziato a lavorare per il festival già nel 2001, come si sono evolute le cose nel corso degli anni?

In effetti, io sono arrivato a Karovy Vary nel 2001 come segretario della giuria; dopo il festival, l’ex-direttrice artistica Eva Zaoralová mi ha proposto di occuparmi della selezione e della programmazione dei documentari e poi, pian piano, sono divento responsabile delle retrospettive e degli omaggi, due sezioni che mi stanno particolarmente a cuore. Da un anno all’altro la squadra che aveva iniziato a lavorare per Karlovy Vary nello periodo in cui ho iniziato io si è andata saldando sempre di più. Di fatto poche cose sono cambiate in questi ultimi dieci anni rispetto alle posizioni di maggiore responsabilità nel festival; la gente che si occupa attualmente di management è arrivata fra la fine degli anni novanta e l’inizio degli anni duemila.

Nel 2011 lei è diventato direttore artistico del festival; qual è il suo bilancio personale alla fine di questi cinque anni?

La decisione della mia nomina è stata presa ed annunciata alla fine del 2010;  in effetti, cinque anno sono tanti! Direi che, man mano che il tempo passa s’impara sempre di più perché le cose cambiano di continuo e perché ci sono sempre delle nuove sfide da affrontare; i film sono diversi da un anno all’altro, per cui nessun festival è uguale a quello precedente… Essere direttore artistico di un festival come quello di Karlovy Vary é un impegno ed una responsabilità enorme ma, allo stesso tempo, è anche un’esperienza incredibilmente eccitante. La base del mio lavoro e di quello del comitato di selezione consiste, fondamentalmente, nel guardare dei film; durante queste proiezioni ci sono dei momenti magici, quelli in cui scopriamo un film che ci emoziona e ci appassiona. Direi che la bellezza di questo lavoro risiede appunto nella possibilità di scegliere un film e di offrirlo al proprio pubblico, sperando di fargli provare altrettante emozioni! Il senso di questo lavoro consiste per me nell’ opportunità di compartire con il pubblico del festival il mio entusiasmo, il mio interesse, la mia passione per i film che ho visto e selezionato; il mio compito consiste poi nel fare tutto il possibile per trasmettere quest’entusiasmo.

Come si posiziona il festival di Karlovy Vary  in un paesaggio festivaliero denso di eventi maggiori?

Bisogna ovviamente fare i conti con la mappa dei festival; noi, agli inizi di luglio, siamo un po’ in mezzo a vari eventi importanti, per cui non è sempre facile riuscire a mettere insieme una selezione di film che ci soddisfi. Mi riferisco al festival di Locarno e a quello di San Sebastian che si muovono, più o meno, su un livello comparabile al nostro. Detto ciò non dobbiamo letteralmente ‘lottare’ per i film perché ci unisce una profonda amicizia sia con Carlo Chatrian (Locarno) che con José Luis Rebordinos (San Sebastian), per cui discutiamo dei film che ci interessano e cerchiamo di trovare delle soluzioni. Resta di fatto che comunque alla fine dobbiamo portare a casa una selezione di film interessanti.

Il festival di Locarno festeggerà quest’anno i cinquant’anni di Karlovy Vary proiettando un classico della storia film ceco: Invention for destruction (1958) di Karel Zeman…

E proprio così!  Dietro questo evento c’è una storia curiosa; l’ambasciatore svizzero a Praga ha scoperto una cosa di cui noi tutti eravamo all’oscuro e cioè che c’è un gemellaggio fra la  città di Locarno e quella di Karlovy Vary. Incredibile, vero? A questo punto abbiamo deciso di fare uno scambio di film; noi abbiamo proiettato Il bacio di Tosca (1984) di Daniel Schmid, un bellissimo documentario collegato a Locarno che è stato presentato qui da Mario Timbal, direttore operativo del festival di Locarno. Con questo gesto vorremmo dimostrare che c’è concordia fra i festival, c’è rispetto e considerazione; per me questo è importante perché stiamo attraversando un periodo in cui alcuni festival mandano dei segnali negativi che possono essere alquanto deleteri.

In questo contesto, qual è la strategia del Festival di Karlovy Vary rispetto alla ‘concorrenza’?

Seguiamo da vicino la ‘concorrenza’, ma le nostre relazioni con gli altri festival sono, come dicevo prima, amichevoli; per esempio con il direttore di San Sebastian ci incontriamo ogni anno a Cannes, parliamo dei film che interessano ad entrambi e cerchiamo di trovare un accordo. E un rapporto molto sano che mi fa molto piacere, lo stesso vale anche per Carlo Chatrian, che è una persona molto saggia e generosa.

Nella sua veste di direttore artistico, come descriverebbe la specificità del Festival di Karlovy Vary?

La cosa più preziosa che abbiamo è il nostro pubblico! Noi siamo volontariamente un po’ “old fashioned” nel senso in cui teniamo molto a questo momento fondatore di ogni festival che è l’incontro dei registi con il pubblico, ritengo inoltre che una delle qualità del festival sia quella di mostrare dei film insoliti che il pubblico locale non può trovare nella distribuzione normale. Inoltre concepiamo il festival come un vero e proprio vivaio per i nuovi talenti; per me è molto importante non solo invitare un giovane regista a mostrare il suo film, ma anche sostenerlo attivamente nelle varie tappe del suo lavoro, anche dopo il festival.

Karlovy Vary sembra svolgere una funzione molto importante all’interno del paese stesso; molte persone prendono apposta delle vacanze per venire al festival. E d’accordo?

Il cinema d’arte ed essai pena a trovare una distribuzione nella Repubblica Ceca; in questo senso non solo Karlovy Vary ma anche varie altre rassegne ed iniziative più piccole sono veramente ricercate dal pubblico perché rappresentano una specie di distribuzione alternativa  alla distribuzione commerciale.La mentalità  gioca in questo senso un ruolo fondamentale; la gente nella sua vita di tutti i giorni non va a vedere dei film impegnativi, al cinema cerca soprattutto l’evasione, è però disposta a guardare anche quattro film impegnativi alla volta quando è in vacanza ed ha l’opportunità di discutere con i registi dopo le proiezioni o di sera con gli amici, alternando a quest’attività  feste e concerti. Dopo avere passato quattro, cinque o sei giorni al festival la gente è pronta a tornare a casa ed a riprendere il suo ritmo di vita normale. Come dicevo prima; è una questione di abitudini, di mentalità. Il pubblico di Praga è molto diverso dal pubblico parigino!

Il Concorso internazionale e la sezione East of the West sono caratterizzati da una grande varietà di generi, di stili, di soggetti. Quali sono i suoi criteri di selezione?

Il comitato di selezione non ha in mente dei ‘criteri’ a priori con i quali abbordare la visione dei film; c’interessa soprattutto scoprire i talenti di domani, ci piace vedere dei registi che cercano di sondare delle strade nuove. Apprezziamo la ricerca nel linguaggio cinematografico, il tentativo di andare oltre i sentieri battuti. D’altra parte il mero formalismo non corrisponde alle nostre aspettative; per noi un film deve essere innovatore, ma deve anche avere un contenuto forte, deve basarsi su un’idea, deve trasmettere una visione della vita. Forse è difficile da spiegare ma – guardando un film- è un qualcosa che si sente, che si percepisce subito. Mi ricordo perfettamente della prima visione di Babai del cosovaro Visar Morina; dopo dieci minuti sapevo subito di volerlo invitare al festival perché, nonostante la sua giovane età, Morina aveva dato al suo lavoro un taglio molto interessante, costruendo il suo universo visivo con audacia ed originalità. Babai è un film che mi ha tenuto con il fiato sospeso, trascinandomi con veemenza nel suo mondo. In fin dei conti, l’elemento determinante di una selezione per me è una specie d’istinto.

Il festival di Karlovy Vary é tradizionalmente una vetrina per il cinema prodotto in una determinata regione geografica che non comprende solo la Repubblica Ceca e Slovacca ma anche tutti i paesi limitrofi. Quest’aspetto mi sembra particolarmente importante visto che i film prodotti in quest’area geografica si sono fatti rari sul circuito internazionale. Qual è il suo punto di vista?

Karlovy Vary nutre l’ambizione di essere percepito come un evento cruciale per l’Europa centrale e l’Europa dell’est; in questi ultimi anni si sono aggiunti anche i paesi post-sovietici e, in misura minore, la Turchia e i Balcani. L’Europa dell’est è una zona interessante perché noi abbiamo ancora dei legami molto forti con alcuni dei nostri vicini come la Pologna e l’Ungheria però lo sviluppo in ogni paese è molto diverso. La produzione cinematografica in Polonia stà andando molto bene perché riceve un sostegno sostanziale dal Polnish Film Institute e perché ci sono delle scuole di cinema di grande reputazione. Pure in Ungheria- nonostante i problemi politici attuali e le grandi controversie che creano- il finanziamento dei film funziona, per cui ogni anno ci arrivano dei film interessanti da questo paese. Per quanto riguarda i film cechi invece, per ora, riuscire a vederne uno in un festival all’estero è molto raro. Spero che le cose cambino presto, per fortuna sta arrivando una nuova generazione di cineasti. Quest’anno a Kalovy Vary abbiamo mostrato tre film di fine di studi provenienti dalla FAMU (Film and tv Academy ceca).  Penso che ci sia un grande potenziale ma affinché questo succeda deve farsi avanti la nuova generazione. La vecchia guardia, i registi che hanno adesso una cinquantina d’anni, spesso non parlano inglese, non sono interessati a guardare le opere dei propri colleghi all’estero, e preferiscono restare chiusi nel loro piccolo universo. La nuova generazione invece – questo riguarda anche la Slovacchia in cui ci sono specialmente delle registe donne molto interessanti – è diversa; viaggia in giro per il mondo, va ai vari festival anche senza avere un film in programma perché ha capito quanto sia importante aprirsi per imparare il mestiere.

Six close encounters, una sezione retrospettiva in cui dei registi famosi introducono un film che ritengono particolarmente significativo, è stata  una bella esperienza: Sergej Losnitza ha presentato The asthenic syndrom (1989) di Kira Muratova, Kim-ki-duk, She (2010) di Lee Chang Dong, e Mark Cousins, il magnifico A moment of innocence (1996) di Mohsen Makhmalbaf, solo per citarne alcuni…

Infatti; Six close encounters era una sezione nuova e faceva parte del nostro programma speciale per il festeggiamento dei cinquant’anni di Karlovy Vary,  ne sono molto fiero!

Per festeggiare i suoi 50 anni il festival ha reso un tributo al suo pubblico facendone il protagonista della veste grafica del catalogo: su ogni copertina posano, come delle star, diverse persone, sole o in coppia!

Il vero protagonista dei festival è, come dicevo prima, il pubblico! Io, per esempio, adoro andare alla Mostra del cinema di Venezia, ma mi sembra che –sarà perché il Lido è un luogo di accesso difficile e molto caro – manchino dei grossi gruppi di ragazzi giovani, ed è un vero peccato! Per quanto riguarda il catalogo e i poster del festival le cose sono andate così; cinque anni fa un nostro amico fotografo aveva iniziato a scattare delle foto del pubblico, un giorno ci è venuta l’idea di continuare, raccogliere questo materiale per utilizzarlo in occasione del cinquantenario. Nel frattempo abbiamo raccolto qualcosa come 1000 foto…

Fra tutti i film che Lei ha selezionato può citarne uno che l’ha colpita o toccata in modo particolare?

Ovviamente per me tutti i film sono importanti, ma ricordo di avere vissuto un’esperienza particolarmente intensa guardando per la prima volta Bob and the trees di Diego Ongaro a Sundance. Bob and the trees è un film a prima vista modesto che ha molto di un documentario eppure piano, piano il regista riesce a costruire un’atmosfera particolarmente suggestiva che culmina in una catarsi finale di una forza tale che non avevo esperimentato da molti anni. . Bob and the trees mi ha fatto nuovamente prendere coscienza di quanto sia difficile trovare una conclusione forte e convincente per un film. Devo dire che l’80% di quanto guardiamo in fase di selezione spesso ci delude proprio sul finale.  La fine di un film influenza in modo sostanziale il nostro modo di percepirlo, a mio avviso. Speravo di avere l’opportunità di portare Bob and the trees a Karlovy Vary, per potere offrire al pubblico dal festival lo stesso livello di emozione che ho provato io!

La sua intuizione si è rivelata giusta: Bob and the trees ha sedotto anche la giuria internazionale vincendo la massima ricompensa del festival: il Grand Prix,  Globo di cristallo. Una bella soddisfazione, immagino…

Si, certamente!

Guardando verso il futuro, cosa si augura per il festival?

Mi auguro di continuare a sentire questa grande passione per il cinema e, ovviamente, di potere scoprire anche in futuro dei film nuovi, entusiasmanti e sorprendenti da proporre al nostro pubblico.

La passione per il cinema arricchisce moltissimo le nostre vite; quella dei miei collaboratori e la mia. Ecco, mi auguro che questa mia passione non si estingua; se un giorno, nonostante tutto, questo dovesse succedere, beh allora chissà… forse andremo  tutti a lavorare per il turismo ! (ride).

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