Al fine di avere una vita migliore, l’uomo ha cercato in tutti i tempi e in tutti i modi di dominare la natura, salvo perdere, si è detto, l’interesse verso la vita nel momento in cui avesse raggiunto l’obiettivo. La frase appena riportata, presa dal pensiero sociologico, può essere letta anche in relazione a questa piccola riflessione a latere su Everest, film del regista islandese Baltasar Kormakur presentato in apertura al recente Festival di Venezia.

Lo diciamo subito, a scanso di facili riduzioni all’insegna dell’effetto blockbuster, che pure lo anima, Everest è un film interessante. Lo è in filigrana. Se ci si sposta, cioè, dal senso letterale, in tal modo raddoppiandolo, o se si dà ascolto alle emozioni più profonde, e decisamente cupe, che si nascondono dietro l’agire (e il non dire o dire peggio) dei personaggi. Un gruppo di soli uomini, salvo una donna giapponese, per lo più insicuri manifesti con tendenze autodistruttive ovvero aggressivi, più o meno manifesti (il capo, Rob, tanto è calmo quanto è determinato nel porsi al comando di un’impresa distruttiva), con manie di controllo, almeno stando su un piano psicologico.

Nella storia del pensiero la natura si è sempre posta come situazione limite, come riflesso del limite umano, così che nella relazione con essa, tramite l’esperienza sensibile (il grande rimosso o l’unica performativa verità, a seconda delle epoche), l’uomo impara a esistere e a morire. Valga ricordare il cinema di Werner Herzog -da Aguirre a Grizzly Man passando per Kaspar Houser e Fitzcarraldo. La natura come esperienza-limite della conoscenza.

Quello che il regista di una delle isole più a nord del mondo, isola selvaggia e aspra con recenti avventure liberiste sulle spalle -un sistema creditizio capace di attirare capitali esteri e cresciuto in modo sproporzionato rispetto all’economia reale del paese che però, diversamente da altri stati indebitati, dopo il fallimento delle banche, stando fuori dall’Ue, ha potuto gestire in autonomia la politica monetaria, svalutando la sua moneta, la krona, fino al 50%-, dicevamo, tornando allo specifico cinema, ciò che Kormakur ci ha voluto forse comunicare, anche in ragione della sua esperienza geografica situata, e seppure in forma dissimulata, è che nella attuale crisi (da sovrapproduzione) economica, di valori, di conoscenza e di relazioni, l’uomo ha perso interesse verso la vita. L’ebbrezza di arrivare in cima e di sfuggire al vuoto e all’infelicità di vite normalmente folli, assume infatti un valore compensativo nel quale anche il reale senso dell’esperienza sfugge completamente. E in ciò risultando evidente anche il voler sottrarsi al tempo, all’esperienza del tempo, tratto fondamentale di chi decide di ascendere una montagna, ridotto ora a rischio isterico, a presente compulsivo in formato tour operator.

Se Everest si avvale allora della narrazione retorica (la retorica delle emozioni e dei simboli), lo fa per mostrarci qualcosa di nascosto accanto, davanti e dietro la sua roboante e rassicurante parvenza. In questo senso va vista in modo inquietante la scena in cui si avverte l’assenza di motivazione alla domanda “perché scalare l’Everest?” (e rischiare la vita)  -la giapponese ne fa una questione di contabilità compulsiva, Doug, il postino che vuol piantare la bandierina sulla cima per i bambini del suo quartiere, di retorica compensativa (al proprio vuoto), gli altri proprio non rispondono salvo battere le mani rassicurati alla risposta di Doug; o la scena in cui il capo della spedizione in partenza bacia la moglie incinta con posa estatica, lasciandola di fatto a casa da sola, in attesa, o quella in cui il virile e ricco Beck dice che a casa si sente incompleto e depresso, salvo farsi aiutare a smuovere le autorità che contanto per salvarsi la pelle dalla moglie a casa (le “mogli a casa” non lavorano, pare). L’unico individualista dichiarato è lo scrittore Kracauer, quello che ha scritto anche Into the wild, che se appunto non ci fa una bella figura quanto a solidarietà e spirito di gruppo, è però l’unico che alla fine riesce ad afferrare il senso della posta in gioco -abbiamo forze solo per tornare giù, tornare su (ad aiutare chi peraltro si è avventurato in cima in modo facile o ingenuo, rincorrendo emozioni, simboli e anche soldi) sarebbe la morte, e io non voglio morire. Antiretorica.

Il regista ci dice infine di come la wilderness, tornata tanto di moda, sia diventata business. Così che file di inesperti escurionisti a oltre 6.000 metri facciano sì che l’errore umano, sempre possibile, diventi un probabile fatto di ingorgo all’ora di punta. E  anche parlare di fatalità allora non ha più senso. Perchè la “causa” c’è e vale ben 65.000 dollari -tanto il costo del viaggio. La natura dell’Everest diventa quindi una semplice “cosa” da comprare e da conquistare muscolarmente, con un paio di mesi di palestra -alla faccia di Messner e compagni (Messner, giustamente risentito per la poca verosimiglianza di molte scene e situazioni presenti nel film, non ne ha forse valutato il possibile aspetto critico, sotterraneo e parodistico). L’esperienza del limite e del tempo, in rapporto alla natura e non solo, è ciò che l’uomo “avventure nel mondo” ha perduto. Così che quello che al netto rimane è una sfida perdente alla sua forza, tanto più che solo l’ossigeno artificiale può salvare il piccolo uomo dalla vertigine della quota massima, enorme, in cui limite si perde.

Insomma che dire, in tempi di naturalizzazione forzata dei domini attuati dal potere, mostrare la commercializzazione della wilderness e la sua ricaduta sul versante delle illusioni non sembra un affare così dappoco.

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