Su La Repubblica di ieri è comparso un articolo molto interessante in merito a una presunta svolta salutista degli Studios. Pare, infatti, che in tutte le produzioni major Usa degli ultimi 5 anni le scene in cui compaiono sigarette o sigari siano crollate addirittura del 72%. Ok, Una notte da leoni 2 è chiaramente fuori da ogni nuovo tipo di corso igienista di Hollywood, ma paradossalmente è molto più difficile del previsto ricordarsi se qualcuno nel film accenda sigarette o meno. A parte scimmie, tigri e boa da spettacolini sexy trash ovviamente. A due anni di distanza dal primo episodio e dopo il contradditorio (flop?) Parto col folle Todd Phillips si riciccia sul sicuro e dà vita a quello che, più che un sequel, è un vero e proprio remake in terra esotica del fortunato Notte da leoni 1. In maniera quasi parossistica, infatti, tutta la sequenza dei colpi di scena e tutti gli sketch estremi visti a Las Vegas si ripetono puntualmente anche a Bangkok, in quello che più che un film – come la volta precedente – sembra incredibilmente un trailer ambulante di se stesso. Già il primo Hangover (che comunque non smetteremo mai di consigliarvi) si reggeva su un montaggio frenetico e una serie esponenziale di scontri frontali con la buoncostume, senza il bisogno di ricorrere più del dovuto a un impianto di dialoghi minimamente elementare. In questa occasione, calato l’effetto sorpresa e anche grazie ai primi quaranta minuti assolutamente piatti che precedono il contatto con la prima birra, vengono fuori anche tutte le magagne che ci erano sfuggite pure nel corso dell’addio al celibato dei tre amici a Las Vegas. I detrattori di Lost detestano quella serie per il susseguirsi spasmodico dei colpi di scena in un mantra di suspense che per mancanza di una struttura narrativa autosufficiente sembra quasi una specie di ossimoro grammaticale visuale. In Una Notte da leoni 2 vale lo stesso discorso, ma per l’insistenza su siparietti con trans, spogliarelli e testate frontali contro migliaia di casse bottiglie di corona con o senza ghiaccio dentro, senza che venga minimamente considerata l’intelligenza dello spettatore. Specifichiamo, il regista in gioventù ha realizzato un documentario sconvolgente sulla patologia nichilista dell’immenso GG Allin (Hated: GG Allin and the Murder Junkies) e maneggia perfettamente i meccanismi della devastazione putrescente. Qui però è come se avesse abbandonato il tutto al pilota automatico di quei film dove si aspettano solo le scazzottate e di pugni ce ne sono quanti ne volete. Ok si ride, ma è impossibile anche non togliersi dalla mente The Beach di Danny Boyle. Leo di Caprio fuggiva proprio dal turismo caciarone e ciccione di gente come Stu, Phil e Alan. Più che il fatto che tutti e tre continuino a non ricordarsi nulla della notte precedente all’unisono, ci colpisce il modo con cui sdoganano in modo davvero sciatto e gratuito l’uso della cocaina. Preferiremo sempre GG Allin.

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