Sister (L’enfant d’en haut), presentato in concorso alla Berlinale è, secondo le parole della regista svizzera Ursula Meier, un film “verticale”. Se questa definizione calza perfettamente con la dimensione spaziale della pellicola, é pertinente anche in un senso figurato essendo il “basso” una metafora linguistica per indicare gli strati sociali più deboli e l’“alto” quelli benestanti. Di fatto il tenore di vita degli abitanti della zona in cui vive Simon, il giovane eroe della vicenda – una borgata a fondovalle situata fra terreni incolti, capannoni industriali ed autostrade – è radicalmente diverso da quello dei turisti che popolano i fianchi innevati delle montagne a qualche centinaio di metri di distanza in altitudine.

È questo il dislivello geografico e sociale che Simon, caparbio e determinato, percorre ogni giorno in funivia con lo scopo di sottrarre il più grande numero di accessori possibili agli sciatori benestanti per rivenderli poi a valle ai suoi coetanei. Per Simon che cresce senza parenti al lato della sorella maggiore Louise – una ragazza sbandata che lavora solo saltuariamente – quest’attività più che una scelta è una vera e propria necessità.

La cinepresa di Ursula Meier sa trovare, già dalle primissime scene, la giusta distanza rispetto al suo protagonista seguendone le mosse con grande fluidità, trascrivendone lo sguardo attento ed ansioso, i gesti veloci e precisi, i movimenti frenetici delle dita mentre sondano le tasche dei giubbotti appesi negli spogliatoi della stazione sciistica, o palpano il contenuto degli zaini, per serrare poi l’inquadratura nel momento in cui Simon, nascosto nel bagno del ristorante attiguo, prende possesso della sua refurtiva nascondendola di qua e di là fra i suoi indumenti e nella sua borsa.

L’immagine di questo ragazzino risoluto, smaliziato e solitario, costantemente in movimento, irrequieto e prematuramente adulto ricorda molto i giovani protagonisti dei film dei fratelli Dardenne; anche qui il comportamento deviante di Simon, scappatoia disperata alle sue condizioni di vita, è il riflesso di un malessere più profondo.

La regista si avvicina quasi inavvertitamente all’intimità dei suoi personaggi e, gradualmente, il baricentro della vicenda si sposta; la dimensione sociale della pellicola si arricchisce di risvolti psicologici trasformandosi a poco a poco nel diario intimo di un rapporto umano appassionato e doloroso. Le frustrazioni dei due protagonisti, le loro ferite emergono attraverso un’accumulazione di piccoli eventi.

La relazione fra Simon e Louise oscilla costantemente fra la tenerezza e l’emergere di tensioni repentine; nelle prime scene si vedono ancora i due ragazzi ridere insieme, scherzare spensierati e divertirsi l’uno con l’altro ma questo equilibrio apparente non tarda a sfaldarsi.

Perennemente alla ricerca dell’amore Louise passa da un uomo a quello successivo nella speranza, costantemente frustrata, di costruirsi una vita di coppia e trascura completamente il lavoro. Simon si vede forzato ad assumere sempre di più il ruolo di capo famiglia; si dà da fare con i suoi piccoli commerci per procurarsi del cibo, si prende cura dell’appartamento e provvede perfino all’abbigliamento della sorella per la quale nutre un affetto enorme non pienamente ricambiato. Poco più che un bambino Simon stesso avrebbe disperatamente bisogno di amore materno come  ben mostra un episodio buffo e patetico in cui il ragazzino attacca discorso, facendo uso delle sue quattro parole d’inglese, con una giovane madre in vacanza solo per avere brevemente l’illusione di appartenere ad una famiglia normale.

Di ritorno nella sua realtà Simon deve  constatare che i soldi sembrano essere la sola vera, reale moneta di cambio  fra lui e sua sorella. È unicamente attraverso dei regali e delle banconote che Simon riesce a strappare un sorriso, un gesto tenero alla ragazza sempre distratta, persa nel suo mondo, instabile, irascibile.

L’oscuro ed enigmatico vuoto affettivo fra i due diventa sempre più palese e crudele. Tormentato e profondamente infelice Simon cerca di colmare come meglio può la distanza che lo separa da Louise: purtroppo l’offerta di beni materiali non solo non getta un ponte fra i due, ma rischia di corrodere e corrompere completamente quella che dovrebbe essere la natura stessa del loro rapporto. In una delle scene più sordamente violente ed ambigue del film, disperato ed avvilito, Simon arriva ad offrire tutti i suoi soldi a Louise in cambio della possibilità di dormire accanto a lei.

Oscuri segreti famigliari planano pesanti su questi due esseri fragili e disorientati; Simon e Louise passano di volta in volta  dal ruolo di adulti a quello di adolescenti senza soluzione di continuità e senza avere vissuto la transizione necessaria dall’uno all’altro in una girandola di comportamenti incongrui e quasi morbosi. Quest’instabilità costante e l’andirivieni erratico dei protagonisti da un ruolo all’altro conferiscono molto del suo fascino al film.

Ursula Meier non ci rivelerà che verso la metà della pellicola quanto si cela dietro la sofferenza dei due in un capovolgimento di prospettiva che li metterà finalmente di fronte alle loro responsabilità reciproche dischiudendo loro il cammino per  un’esistenza più serena ed equilibrata. Il finale della pellicola resta sapientemente aperto verso un orizzonte di speranza e fiducia a venire.

Sia la costruzione della sceneggiatura che le scelte della messa in scena ed infine le eccellenti interpretazioni dei suoi due protagonisti  – Kacey Mottet Klein stupefacente nei panni di Simon e Léa Seydoux in un ruolo controcorrente perfettamente calzato- fanno di  L’enfant d’en haut una delle opere più rigorose e coerenti fra quelle presentate in concorso alla Berlinale di quest’anno.

Forte della collaborazione di una direttrice della fotografia del talento di Agnes Godard, Ursula Meier sa puntare l’obiettivo con empatia ma senza falsi sentimentalismi sui giovani volti dei suoi protagonisti irrequieti ed ardenti optando per uno stile scarno e minimalista di stampo documentario.

Dialoghi e situazioni sono ricreati con un realismo efficace  che va di pari passo con un allestimento attento al dettaglio e perfettamente calato nel milieu che descrive, quello di una Svizzera lontana dai luoghi comuni, popolata da quell’umanità varia e poco conosciuta che pullula i retrobottega delle stazioni sciistiche: cuochi, garzoni, tecnici delle funivie e donne delle pulizie appaiono nel ruolo, assai insolito per il cinema elvetico, di veri e propri protagonisti.

La regista è stata ricompensata a Berlino con una menzione speciale, un premio ad hoc creato per la sua pellicola al di fuori delle categorie canoniche della manifestazione; un premio di consolazione, in un certo senso, per un film che avrebbe meritato una ricompensa più sostanziale.  Commossa Ursula Meier ha ringraziato la giuria per averle offerto una ricompensa al “margine” in perfetta sintonia con il carattere del suo protagonista.

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