In occasione dell’uscita in sala di Inception, riproponiamo questo pezzo scritto dopo aver visto il film in anteprima a Parigi.

Se vi siete chiesti perché non avete potuto vedere Avatar in Italia nello stesso momento in cui usciva negli altri paesi, e vi state chiedendo ora perché dovrete aspettare fino al 24 settembre per Inception, l’ultimo film di Christopher Nolan, be’, la risposta è semplice. In estate i cinema italiani sono chiusi perché “Anto’  fa caaldo”  (e l’aria condizionata?) e poi le arene devono riproporre i blockbuster della stagione trascorsa per essere sicuri di spremere ben bene il prodotto, spendendo poco ma imponendo a voi di pagare un prezzo eccessivo per una sedia di plastica. A Natale, invece, guai a chi tocca i “cinepanettoni” e altri prodotti made in Italy. Natale con i tuoi, il resto dell’anno, estate a parte dicevamo, con chi vuoi. E poi dice il mercato.

In attesa che una lenzuolata di liberalizzazioni rinfreschi anche il cinema, Inception l’ho visto dunque in una sala parigina, alle 11 di un piovoso ferragosto, circondato peraltro da diversi spettatori. Che il film di Nolan sia un film “grand public”, come direbbero i francesi, è chiaro, d’altronde lo premette, e promette, il cast, da Leonardo DiCaprio in giù. C’è la giusta, ampia dose di azione e violenza – sparatorie, inseguimenti, combattimenti corpo a corpo –  c’è il susseguirsi di effetti speciali, c’è il cambio frequente di scenari, più o meno esotici. Insomma, si vede quella “macchina da cinema” che sta dietro a film commerciali e godibili come, per fare un esempio, Mission Impossible .

Poi, però, c’è l’altro impianto ideologico dell’opera, il film nel film, per cercare di restare fedeli alla costruzione di Nolan, che ha lavorato alla sceneggiatura per una decina d’anni. Ed ecco il thriller fantascientifico in cui i protagonisti agiscono nei sogni, che in fondo sono dimensioni diverse e parallele dell’esistenza che scienza e pirateria capitalistica hanno subito trasformato in un terreno di battaglia dove si combatte per rubare agli antagonisti idee (da sfruttare).

[Parentesi per gli appassionati della narrativa di fantascienza: qui qualche spunto viene certamente da Philip K. Dick, ma direi anche un racconto di John Shirley, L’Aziendale, che è uno dei primi scritti cyberpunk, in cui il furto delle idee altrui è rappresentato come una raffinata e tecnologica arte su commissione delle multinazionali]

Il film si svolge su più livelli onirici ma, per non complicare la vita allo spettatore – e soprattutto allo spettatore del livello zero, quello di Mission Impossible – ognuno di essi è rappresentato come un luogo e un’azione diversa. Certo, nel racconto non mancano i paradossi, ma non vi inquietate: non sono più difficili da comprendere che quelli delle classiche storie sulle macchine del tempo, genere Ritorno al futuro.

La struttura complessiva dei diversi livelli, poi, potrebbe forse essere avvicinata a quelli di certi videogiochi. In fondo gli onironauti si muovono in scenari concepiti da veri e propri architetti del sogno, come succede appunto per i developer che creano e sviluppano giochi digitali. Cosa sarebbe accaduto invece se Nolan avesse mantenuto l’aristotelica unità di azione, luogo e tempo – ma non ovviamente quella onirica – nel raccontare la storia? Un geniale casino, forse ancora più emozionante del film qual è nella forma che il regista ha scelto di dargli.

Ma neanche l’autore di Memento poteva pensare di turbare lo spettatore a quel punto, con i protagonisti impegnati ad agire in un sogno nel sogno nel sogno sullo stesso scenario (però potrebbe provarci qualcuno a teatro…). E in fondo, un tale caos sarebbe servito poco anche a impiantare nello spettatore l’idea del film, destinata a germogliare. Quale? Un dubbio apparentemente marzulliano: La vita è sogno? O meglio, la vita è fatta di sogni? E la morte, ci libera dalla realtà o solo da un sogno eccezionalmente ben progettato?

In fondo, sembra essere questa l’inception, l’iniziamento.

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