Chi l’ha visto per intero ne parla molto bene.  Quattro episodi per 204 minuti che coprono un arco di tempo tra il 1828 e il 1862  potrebbero suscitare l’idea di una perigliosa avventura cinematografica di cui non si vede mai la fine, ed invece no, Noi credevamo, a coloro che hanno avuto la fortuna di vederlo integrale alla Mostra del cinema di Venezia, è piaciuto. Chi come me non era al Lido si è dovuto accontentare della versione distribuita nelle sale, con un taglio di circa 30 minuti, una riduzione montata e accettata dallo stesso Martone che qualche perplessità la suscita. Non tanto per il punto di vista mazziniano con cui guarda al Risorgimento, per cui con il rimpianto di chi vede nell’Unità d’Italia il tradimento dell’ideale democratico che perisce con la caduta della Repubblica Romana o per il sottofondo amaro sulle sorti del Meridione (questa mi pare sia la tesi di Martone), quanto per l’impressione di risicato che dà una vicenda così ampia, tanto da non permettere allo spettatore di raccapezzarsi per quanto accade sullo schermo e di rimanere al tempo stesso smarrito di fronte agli inserti anacronistici (particolarmente sconcertanti i resti in cemento armato di una costruzione).

martoneNoi Credevamo merita di sicuro il premio che ha ricevuto lo scorso venerdì, il David di Donatello come miglior film, secondo alcuni ampiamente prevedibile, dato che ci troviamo nell’anno del 150mo dell’Unità d’Italia, perché riesce a spolverare il peso degli anni sul Risorgimento e a mettere da parte la retorica che grava su quel periodo storico, anche ridonandoci un profilo di coloro che fecero l’impresa fresco e giovanile. Aspetti su cui tutti, più o meno, concordano. Restano le perplessità per quella versione ridotta distribuita nelle sale che non sembra soddisfare appieno il piano dell’opera e la sua originaria realizzazione, nonostante il consenso di Martone alla forma “breve”. Per cui ci troviamo di fronte a un fatto curioso, il David è andato a un film che in pochi hanno visto per intero così com’è stato concepito. Chissà i giurati quale versione hanno visto. Bisogna aggiungere, non  tanto a demerito del regista napoletano ma per sottolineare indirettamente le condizioni della nostra cinematografia nazionale, che gli altri concorrenti al titolo di miglior film erano Benvenuti al Sud, La nostra vita, Basilicata coast to coast e Una vita tranquilla. Un gruppetto di inseguitori in affanno e in ogni caso felici di spartirsi gli altri premi, c’è da domandarsi quale di questi film superarà l’oblio, non è facile rispondere.

Sorprende invece il premio quale miglior regista a Daniele Luchetti che con La nostra vita ha scoperto la camera a mano, una ulteriore variazione stilistica di questo autore che sinora non è riuscito a trovare nei suoi lavori un qualcosa di inconfondibilmente suo, sembra sempre essere preoccupato di compiacere il pubblico, di offrire a chi guarda uno spettacolo che non disturbi, anzi, che sollevi l’animo da inquietudini di sorta. Ma la sorpresa non è tanto per le scelte espressive, quanto per un particolare narrativo interno al film che già al tempo dell’uscita fu polemicamente ricordato con ragione da Goffredo Fofi. In La nostra vita il protagonista interpretato da Elio Germano non si fa scrupolo di sotterrare il cadavere di un uomo (un extracomunitario) che ha/abbiamo in qualche modo contribuito ad ammazzare, con “la complicità e il beneplacito e l’assoluzione di tutti, perfino dei figli delle vittime, che finiscono per approvare in cambio della loro integrazione nel nostro ordine domestico” scriveva Fofi. Può un film che omette qualsiasi responsabilità sulla morte nascosta di uomo ricevere un premio, un film che termina col lettone dove padri e figli si abbracciano sentimentalmente, tanto che non potresti rimproverare mai più nulla a quel padre? Verrebbe da dire ma “la nostra vita” di chi? La “nostra” di chi? Può Daniele Lucchetti coinvolgerci in un dramma dove il comportamento morale è quantomeno discutibile per poi proporci un finale consolatorio? La nostra vita? Si chiedeva nervosamente un mio amico e rispondeva: ma sarà la tua!

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