Per scoprire cosa bolle nella pentola del giovane cinema italiano, è utile frequentare festival come Arcipelago, arrivato quest’anno alla 16esima edizione, che ha offerto spunti interessanti per una breve riflessione sulla percezione che i nuovi registi hanno del cinema, del mondo e di ciò che conta raccontare.

C’è da dire innanzitutto che nella sezione italiana ConCorto, dedicata al concorso nazionale cortometraggi, quasi tutte le opere presentate si sono distinte per accuratezza formale e  ricercatezza di stile, aprendosi nelle tematiche e nei contenuti anche a realtà di ampio respiro sociale. Clandestinas di Silvia Chiogna ha meritatamente ottenuto il Premio come miglior corto italiano per la sobrietà e la delicatezza con cui è riuscita a raccontare il dramma degli immigrati clandestini in Germania, costretti a muoversi come degli invisibili in un mondo che non dà nessuna tutela e nessuna garanzia per chi non esiste. Anche Il torneo di  Michele Alhaique, Premio della Giuria di ConCorto, ritrae con molto affetto i giovanissimi protagonisti di una periferia romana, descrivendo, interrogando, suggerendo emozioni. Tutti gli altri in concorso offrono la possibilità di una riflessione su alcuni elementi ricorrenti e significativi.

Due le caratteristiche presenti nella maggior parte delle opere: i “non luoghi” e l’ironia delle situazioni come protagonisti dell’ambientazione di fondo. Così è in Action di Giorgio Caputo, in cui la violenza di un pestaggio si trasforma in una caricatura del set cinematografico in cui è ambientato; Cronaca di un rapimento di Guido Tortorella fa iniziare in un parcheggio pubblico un rapimento che poi si rivela comico e grottesco; C, contrappone a scene di angoscioso presagio ambientate in un albergo, un esito finale di paradossale ilarità; François di Iacopo Zanon e Dario Gorini fa ruotare intorno al tavolino di un ristorante un gioco di personaggi alla ricerca dell’anima gemella che non sembra mai interrompersi; Pillole di bisogni,  di Ivano De Matteo, mette insieme brevi storie di vita quotidiana che si avvicendano nel bagno pubblico di un bar.

Se l’ironia produce il rovesciamento e la stimmatizzazione di una passione di cui vengono temperati i contrasti violenti, e se i nonluoghi rappresentano l‘avallo di liberazione da un ruolo attraverso l’assunzione di un’identità provvisoria, possiamo azzardare l’ipotesi che entrambi possano riferirsi a una forma molto moderna di solitudine, in cui sia la presa di distanza dalle emozioni che la produzione di relazioni di passaggio confermano il mascheramento del soggetto e il suo smarrimento nella folla. Solo, ma simile agli altri, l’utente del non luogo si trova in una provvisorietà che gli permette anche di prendere le distanze da se stesso e da ciò che sente. I nonluoghi si oppongono a qualsiasi punto di riferimento rassicurante e provocano una disposizione a fare il vuoto, a rovesciare tutto ciò che si pretende serio e carico di significato.

Il cinema italiano in questo senso diventa uno specchio in cui questa realtà di passaggio, frantumata e disintegrata, possa riflettersi: i paradossi più stridenti a cui danno luogo le situazioni in cui si ritrovano i personaggi delle storie trovano la loro giustificazione nella perdita d’identità che si produce soltanto nelle stanze d’albergo, nei parcheggi dei centri commerciali, nei bagni pubblici dei ristoranti. L’anonimato derivante dall’identità provvisoria che si assume nei nonlughi può essere avvertito dai protagonisti come una liberazione da ruoli o ranghi, dall’attribuzione di significati e definizioni dei sentimenti e delle relazioni fino ad arrivare alla dissoluzione, alla coesistenza degli opposti. E in questo magma indistinto in cui è difficile rintracciare verità e definizioni, emerge come unico dato l’essere umano che ha dissolto la sua identità e i suoi legami. Ecco, questo sembra dirci il cinema italiano degli esordi: da un lato la necessità di ripartire dalle urgenze sociali, dall’altro l’inevitabilità di farlo da zero dopo aver annullato senso e definizioni. E tutto il cinema partecipa di questa realtà multiforme, la materia filmica, gli stessi autori sono solo in grado di ri-flettere il crollo delle certezze del mondo contemporaneo. Il compito dell’artista non è più solo, come in Pirandello, disintegrare le falsità del mondo: nessuno è fuori dai suoi meccanismi di disintegrazione delle definizioni, anche il cinema è incapace di rintracciare qualcosa da cui ripartire per contrapporsi alla caduta libera, al transito di personaggi, sentimenti e immagini in cui gli uomini tentano di costruire il senso del loro vivere quotidiano.

 

I vincitori di Arcipelago 2008 

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