Come un piccolo, prezioso gioiello sospeso tra classicismo e modernità, il passaggio del secondo lungometraggio da regista di Ed Harris, poliedrico attore in grado di passare dai blockbuster al raffinato cinema d’autore, di fare il caratterista di lusso come il mattatore assoluto, verrà ricordato come uno dei momenti cinematograficamente più alti della terza edizione del Festival del cinema di Roma.
I concetti di classico e moderno vanno a incontrarsi e ad amalgamarsi alla perfezione all’interno della struttura di un genere dai codici ben precisi come il western, in questo caso di frontiera, essendo la vicenda ambientata nella piccola cittadina di Appaloosa al confine con il Messico. E la ridefinizione degli spazi e delle luci, dei corpi e dei volti, delle motivazioni psicologiche ed emotive dei personaggi e del loro interagire dentro lo svolgimento della storia, trova una felice e armonica coerenza nello sguardo lucido, preciso di Harris che non rinuncia a una particolare sensibilità per i paesaggi colti in tutte le sfumature dei colori della terra e per le ariose aperture verso un esterno che appare sconfinato e brulicante di pericoli. Ma al tempo stesso costruisce una vicenda intima, privata, diremmo quasi domestica, restingrendo a volte lo sguardo come dentro la cornice del prefabbricato di una casa.

Il nucleo della storia ruota, infatti intorno a tre personaggi principali, la coppia di infallibili pistoleri Virgin Cole e Everett Hitch, a cui prestano il paesaggio dei loro volti lo stesso Harris e Viggo Mortensen, accomunati dalla capacità di esprimere il massimo attraverso l’essenzialità dell’espressione e l’intensità dello sguardo, mentre di tutt’altra natura anche attoriale è l’Allison French interpretata da Renèe Zellweger, giovane “femmina” vedova venuta a portare scompiglio nella solidità dell’equilibrio virile tra i due “maschi”. Un ruolo che si adatta pefettamente sulle faccette e le smorfie leziose dell’interprete di Bridget Jones, fino a rivelarne poi una vulnerabilità segreta quasi toccante. Per chiudere il cerchio, sullo sfondo c’è l’immancabile cattivo,
il ranchero avido e corruttore Randall Bragg che l’azzeccata scelta di Jeremy Irons rende di sublime perfidia e vigliaccheria, magari con un occhio a un personaggio a cui Irons prestò solo la voce, lo Scar usurpatore del trono ne Il Re Leone, del quale viene ripresa questa idea di presenza minacciosa e costante, nonchè di empietà rispetto all’etica e alla legge.

Ciò che rende la struttura di Appaloosa svincolata da una lettura unidimensionale e aperta ad essere penetrata, interpretata e recepita secondo letture a più livelli, è dato da un perfetto equilibrio tra la sceneggiatura dello stesso Harris e di Robert Knot, da una novella di Robert Parker, e dalla messa in scena che nè è derivata con la contrazione di situazioni e ispirazioni anche stilisticamente eterogenee. Sono presenti sicuramente spunti elaborati da quei western capostipiti sull’amicizia virile come Il fiume rosso di Howard Hawks o Sfida infernale di John Ford, vibra un certo sentimento epico, ma anche la sua sconfessione anti-romantica come nell’opera di Sam Peckinpah, per non parlare del gusto un pò cialtrone, zingaro e selvaggio che animava il cinema di Sergio Leone, al quale Harris guarda probabilmente per la dissacrante ironia e per la balordaggine e tenerezza che fanno i suoi non celebrati
eroi. Ma probabilmente c’è anche qualcosa di più che offre al film e a noi spettatori  ed è questa dimensione proveniente direttamente dallo stile così attento alla concretezza, al particolare, tale da restituire un senso fisico negli scontri a fuoco e da
imporre in tutta la sua efficacia la potenza della rappresentazione. E’ come se fossero gli attori stessi – e in questo caso la presenza dell’Harris regista e dell’Harris attore devono aver coinciso in un’unica direzione – a mettersi in scena come personaggi e, di conseguenza, a mettere in scena le azioni che questi devono compiere.

Quando si parlava di ridefinizione delle motivazioni psicologiche ed emotive, si intendeva in fondo questo concetto di espressione del personaggio attraverso le azioni che compie, ed è per questo che la cura per il dettaglio, per la posizione del corpo piuttosto che per una smorfia del viso o per il modo di camminare diventano essenziali, imprenscindibili dalla capacità di comprendere la verità di quel personaggio e la natura del suo mondo. Basta vedere la sequenza dello scontro a fuoco tra Virgin ed Everett con due spietati e cinici fratelli killer, i quali annunciano anche in questa occasione come non abbiano potuto fare a meno di essere delle carogne assoldando altri due killer contro i nostri due protagonisti che, dal canto loro, si dirigono dritti, decisi e sicuri incontro al loro destino, con un’inquadratura frontale di trattenuta emozione.

Chi ricorda poi la grande stagione di un cineasta americano atipico come Robert Altman, non avrà dimenticato il suo personalissimo incontro con il western ne
I compari, Buffalo Bill e gli Indiani: crepuscolari, spettrali viaggi attraverso mondi popolati da fantasmi, ombre, immagini di uomini che non esistono più e
che sono richiamati a vivere come personaggi da rappresentare all’interno di una storia che magari è sempre la stessa nel contenuto, ma sempre diversa nella
forma. Come Warren BeattyMcCabe metteva in scena la sua fine in un duello risolutivo del quale già conosceva l’esito, come Paul NewmanBuffalo Bill trasformava in spettacolo e rappresentazione la storia del massacro e della sottomissione dei pellerossa da parte degli yankees, così il laconico ViggoEverett si appropierà del ruolo di giustiziere per tutelare l’EdVirgin e il suo ruolo di sceriffo e sfiderà in duello il pusillanime JeremyRandall.

Consumato con una secchezza e una tensione ammirevoli, l’atto finale della rappresentazione, l’unica immagine che può rimanere negli occhi, è un cavaliere che si allontana di spalle sul suo cavallo. L’uscita di scena dallo sconfinato palcoscenico dell’immaginario.

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