Che cos’è un film autobiografico? E che cos’è un film sincero? E’ possibile parlare di sincerità in un racconto per immagini dichiaratamente di finzione? La risposta a tale quesito, va da sé, sarà sempre una risposta improbabile. Un’approssimazione verso le reali intenzioni dell’autore che proprio in quanto intenzioni rimarranno sempre opache, inaccessibili, imprevedibili. Anche nel più convenzionale dei registi, cioè in quello più legato al racconto tradizionale, la zona di riserva mentale non potrà difatti mai essere raccontata del tutto. Tanto più che questo vale, all’opposto, anche per il più cristallino dei documentari. Senza dimenticare, inoltre, il peso strisciante delle ambizioni ego-performative o autoedificanti che quasi sempre finisce per offuscare l’opera. Questa zona opaca potrà però funzionare (o meglio: assumere una forma) come dispositivo metaforico (attraverso l’uso conscio di simboli talvolta inconsci) oppure come una certa tendenza affettiva (espressa attraverso lo stile). Nella tendenza autobiografica, d’altronde, è dato riconoscere sincerità nella misura in cui alcune fasi significative del passato dell’autore vengono non solo narrate e ricordate (con più o meno verità e con altrettanta scivolosa nostalgia) ma, molto di più, quando queste sono il risultato di una presa di coscienza del medesimo autore che avviene nel momento stesso in cui egli si pone lungo la rotta del ricordo. Perché proprio la sincerità di ciò che avviene qui ed ora rispetto a un evento passato è l’unico dispositivo che permette allo spettatore di provare un’esperienza non (solo) consolatoria ma cosciente e attuale. Insomma, e tanto per esser chiari, il film di Luchetti non segue il codardo leit motiv “si stava meglio prima”. Né la presuntuosa (se pensiamo ad esempio all’ultimo film di Sorrentino) fuga in un passato più immaginario (e perciò autoriferito) che reale. Anni felici ci rivela dei segreti del suo autore dandoci ad intendere come questi  siano stati dissotterrati e analizzati da poco, o comunque nel corso del tempo. E ci suggerisce quindi come questi ricordi siano strettamente legati al presente in un’ottica che –per forza di cose- oltrepassa la privata esperienza dell’autore. Inoltre, e stando su un piano più narrativo, raccontandoci una storia di contraddizioni, desideri e sperimentazioni ambientate nella metà degli anni ’70, Luchetti finisce anche per parlarci delle relazioni di oggi e di come siano diventate gabbie da voliera per pennuti sempre più paurosi e meschini.

Luchetti fino all’ultimo avrebbe voluto chiamare il suo film “Storia mitologica della mia famiglia”, che appunto sembra un bellissimo titolo per un buon libro di autofiction. E a rafforzare l’idea di autobiografia c’è la stessa voce che il regista presta a Dario, figlio maggiore della disordinata ma desiderante coppia composta da Serena e Guido –molto affiatata l’intesa tra Ramazzotti e Rossi Stuart-, che è anche colui che narra la storia dopo un imprecisato intervallo di tempo (ancora una dichiarazione di imprecisione, e questa volta direttamente verso la propria memoria). Per chiudere i riferimenti a specificità riconducibili allo stesso regista, si sottolinea come da metà film in poi, al racconto orale del narratore si aggiunga il racconto per immagini che nelle intenzioni si vogliono dell’epoca. Dario gira infatti dei filmini super 8 con cui tenta di cogliere confusamente (la grana delle vecchie pellicole lo è) la realtà che gira intorno a un ragazzino di dieci anni. Il super 8 gli è stato peraltro regalato dalla nonna commerciante (probabile nesso simbolico su arte e industria).

Ma il nesso tra narratore e testo, a essere sinceri, potrebbe continuare anche nel rapporto tra arte astratta e arte figurativa, che Luchetti, anche qui, cerca di indagare con una certa onestà. Perché se non ci sono dubbi (e basta guardare i suoi film) di come il suo favore vada ad una narrazione abbastanza tradizionale, ugualmente evidente è il rispetto e l’affetto con cui Luchetti rappresenta le avanguardie e le sperimentazioni che agitavano quegli anni confusi (e abbstanza felici). Ciò assume un valore ancora più forte se si pensa, invece, alla ridicolizzazione delle performance stile Marina Abramovich presente ne La grande bellezza.

Il lavoro di Luchetti acquista ulteriore simpatia se inoltre lo si vede nella prospettiva, che inevitabilmente sta sullo sfondo, di film destinato a un pubblico nazionalpopolare (a cavallo tra la definizione gramsciana e quella attuale decisamente più spregiativa). Perché finalmente non ci offre un happy end in cui la famiglia -con afflato ineffabile- si ricompone, perché per la prima volta ci mostra un bacio saffico che è erotica lode alla vita per quello che nelle sue varie forme è (e ci risparmia il solito sguardo maschile dietro la porta), perché finisce con una delle scene più belle che mi sia capitato di vedere negli ultimi tempi: la madre che dopo esser risalita dall’apnea per prendere aria ridiscende nel fondo del mare per dare vita e eros al figlio. Bellissima davvero -e il merito va anche alle caratteristica istintività dell’attrice. Una visione vertiginosa sulle profondità del materno e del desiderio che speriamo non venga rifiutata da chi ha la responsabilità (perche “l’opera ti guarda e ti giudica”) di guardare e giudicare. Bravo Luchetti.

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One thought on “Anni felici di Daniele Luchetti: storie che ci (ri)guardano

  1. il film non l’ho visto, ma sono sicuro che la recensione è meglio! mi sa che non lo andrò a vedere per non rovinarmela.
    potenza delle recensioni!

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