La materia nella quale  Delbono si muove, con cui interagisce, che plasma, e da cui è plasmato a sua volta,  altro non è che la vita. Affermazione banale e generalmente valida per tutti; e allora perché l’apparentemente caotico caleidoscopio  di sensazioni, immagini, pensieri, che si compone in quadri di nuovo ortemente frammentati, ci colpisce così duramente allo stomaco e ci costringe a riflessioni che esaltano lo stupore e il timore nei confronti della vita stessa, proprio della nostra vita?

È facile rispondersi con note di maniera. Questa è l’arte, questo è il lavoro dell’artista.

Delbono ci mostra e produce sensi e significati di ordine superiore, non necessariamente nuovi, a partire dalla stessa materia nella quale siamo immersi, che irrompono nell’accavallarsi delle azioni che intraprendiamo più o meno consapevolmente, se siamo sensibili e disposti ad accettare le conseguenze di queste  rivelazioni. Ma di nuovo, Delbono ci lascia interdetti. Forse ci sono fatti e relazioni che non sospettavamo, e che forse non ci piacciono. Altre cose invece ci piacciono immensamente ed è dal confronto conflitto fra esse, che scaturisce innanzi tutto la curiosità, poi l’ammirazione.

Il film potrebbe essere diviso in capitoli. Il primo e l’ultimo riguardano lo stesso soggetto e danno un senso circolare alla narrazione, sottintendendo che non c’è un inizio e un termine, né un fine verso il quale tendiamo, ma solo un incessante divenire, che pur accrescendosi di senso non produce significati teleologici, ma scatena di continuo nuovi o vecchi interrogativi, e il continuo interrogarsi non è esso stesso il significato ultimo di questo movimento, ma solo un suo portato.

Il film comincia tra le macerie nella zona rossa dell’Aquila. A prima vista non sembrano “macerie”; i palazzi sono magnificamente puntellati e mostrano una specie di decoro, ma in realtà sono morti, come corpi ricomposti sul letto. La città è infettata dal virus della corruzione e  tenuta in vita artificialmente da un accanimento terapeutico che serve solo ad alimentare ulteriori azioni di sciacallaggio speculativo.

Delbono parte da qui per cominciare il suo percorso sulla morte, sulla violenza, sulla redenzione. Parte da un corpo straziato, del quale respira i miasmi velenosi.

Nel secondo capitolo incontra (narrativamente) Giovanni Senzani, carismatico capo delle BR. Ala dura, quella che uccise Roberto Peci, fratello del pentito Fabrizio al quale si attribuiscono le responsabilità della carneficina di quattro brigatisti a Genova, da parte della Polizia, da lui informata.

Personaggio schivo e dedito al suo mito, Giovanni racconta soprattutto episodi, gli stati d’animo sembrano invece ingabbiati in una sfuggente latitanza dell’anima.

Ma perché è stato ucciso Roberto Peci? Lui è solo il fratello della carogna. Perché dunque accanirsi contro di lui in una logica che non è dissimile da quella della rappresaglia?

Lui e Pippo diventano amici. Perché? Dov’è la sua umanità? Dove possono incontrarsi quelle umanità che dovrebbero legare il buddista al rivoluzionario? In realtà il legame è quello della violenza e forse, come potrà meglio apparire, è quello della morte. La morte di Margherita, madre di Pippo, e quella di Anna, compagna di Senzani, la morte di Roberto Peci, la morte della città.

Delbono dà una descrizione dell’incontro con Senzani, e questo è un altro capitolo. Esso avviene durante le rappresentazioni della “Cavalleria Rusticana” a Napoli. Sembra l’incontro tra due espressioni romantiche di narcisismo; un insieme di grandezza e mostruosità. I loro atti sono prove a cui i due si sottopongono; la violenza che sono capaci di esplicare fonda l’atto creativo della loro comunione. In Delbono è la scelta di filmare e di rappresentare TUTTO. È  una scelta di violenza, la scelta deliberata, cinica quasi, di mostrare la morte della madre, profondamente amata, e con essa di mostrare carne e sangue, e nervi scoperti, è una scelta di violenza, credo; di violenza rivelatrice e redentrice.

In Senzani la violenza è l’ossessione razionalizzatrice (e contraddittoria – contraddizione alla quale non sfugge) della costruzione della libertà attorno alla sopportazione del dolore, al sacrificio dell’individuo, rituale antico di cui Peci è l’innocente oggetto sacrificale e lui l’esecutore della sugellazione del patto tra l’uomo e il Dio della collera e della giustizia.  Delbono è al centro di questa narrazione circolare, ne è il cantore, ma è anche l’altro protagonista ed è infine l’attore, il narcisista.

La scena si sposta: Margherita, la mamma, è un’ Innocente, ed è anche una vittima sacrificale. Il filmato della sua morte va al di là dell’intimismo svelato, in cui le bellissime immagini, il comunicare in dialetto stretto e umile di madre e figlio, in una visione di bellezza catartica, dovrebbero rimanere. La loro comunicazione è leggera, avviene nei sentieri della poesia, di quella colta, di Sant’Agostino come di quella popolare, dei santini.

In un certo qual modo essenziali, come lo è il loro dialogare, sono i loro ricordi, le semplici sensazioni e  la loro reiterazione. E la comunicazione avviene allora sui sentieri della bontà, pura e semplice, come quando Margherita riceve la telefonata della nipote, che la ringrazia del regalo ricevuto, e lei gioisce della sorpresa fattale, le chiede se se “l’aspettava”. L’amore e la morte trovano confronto e reciproca comprensione.

Ma la morte non è un corpo morto, appunto; è il racconto della morte a fondare la vita, a conferirgli dignità e bellezza.

In questo racconto è rappresentata anche la vita quotidiana, lo squallore della malattia, e i tentativi intrapresi da Pippo, in modo quasi scocciato, di non sottrarsi a quelli che sono i riti popolari della ricerca di intermediazioni magiche (la ricerca in Albania della medicina estratta dallo “Scorpione blu”) nel tentativo di restituire sacralità alla malattia.

Le mani che alla fine si intrecciano, quelle calde, pulsanti e vive del figlio, e quelle fredde della madre, si incontrano; non si sono mai lasciate.

Anche Anna muore. La compagna paziente che ha aspettato Giovanni per venti anni. È la testimonianza dell’amore eterno. Senzani ritrova la stessa umile umanità che abita la  camera modesta di Margherita. Il corteo funebre dei compagni è il coro dell’epilogo delle tragedie.

Di nuovo la città che muore, che è già morta. Delbono si domanda se questa morte, se questo omicidio, non vada riscattato, con la violenza; si chiede se non sia giusto riprendere le armi. È qui il legame con la tragedia, con l’epicità di Senzani, dell’eroe capace di far rivivere il mito. La lotta eterna con la morte, e questa lotta è vita, è senso. E la morte è carica di senso.

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2 commenti su “Ancora su Sangue: Delbono sul senso della morte e della vita

  1. è davvero molto interessante, e del tutto centrato rispetto all’opera di Delbono, il riferimento che fai alla violenza e alle sue possibili declinazioni (e ambiguità)

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