Il gioco pare quello di sempre, da fumetti Hollywood evoca maschere del bene e del male, avvinghiate in una deflagrante lotta per la tutela o la distruzione del globo metropolitano. L’umanità è una città da incubo, avvolta nei vapori sinistri di un caotico efficientismo, territorio di conquista per bande braccate da servizi di intelligence senza orizzonte certo d’inchiesta. Intendi l’ennesimo latrato e non sai se l’emetta il capobranco criminale o il capo di un entourage investigativo che teme di poter agguantare il malfattore solo se si sarà reso a lui affine nella spietatezza. Ecco la variante al plot manicheo.

Si sprigiona un barlume di cattiva coscienza nei fattori di questa pellicola tutta inseguimenti e botte da orbi: è il presentimento che l’ordine si tuteli non attraverso procedure pubblicamente censibili, ma solo con la sua sospensione paracriminale. Impera una radicale diffidenza, tra i cattivi (si uccidono l’un l’altro sin dalla prima scena) come tra i buoni (nessuno immune dal sospetto del doppiogioco). Ognuno è solo come Joker e l’irruzione di Batman appare a molti, al suo stesso animatore (Bruce Wayne), non già provvida, bensì il male minore.

Batman travolge le regole e ammanta la propria azione de facto criminogena con la stessa rete Hi Tech di Gotham City, inglobando in una velleitaria copertura cellulare la personale e spaesata caccia allo spettro, all’altro se stesso (Joker). Batman non traghetta la città del magnate Wayne in un sogno di decoro e ordine, ma la precipita a scossoni nel gorgo. Il suo stesso dilaniato manovratore (Bruce Wayne) ne è consapevole. Vorrebbe passar la mano e seppellire lo spirito di cavaliere oscuro in un eroe normale, nel procuratore Dent. Ma non ci riesce, è un nevrotico ossessivo (in origine al bimbo Bruce i genitori vennero uccisi da un criminale all’uscita del cinema) che non può fare a meno di essere più di un cittadino normale. E’ un benefattore, un tutore troppo tutore delle istituzioni e, quando occorre, un giustiziere. Batman avverte un’originaria debolezza (si sa non un eroe, ma uno che per troppo tempo ha concentrato su di sé poteri corruttori) e scopre come il regista occulto dello scontro di forze, da cui si sente irretito insieme ai tutori della propria città, è lo spirito dell’anarchia e dell’alea, di cui Joker si rivelerà l’interprete più franco. Spinto solo da desiderio di gnosi, Joker ha compreso come i destini umani non siano inquadrati da un occhio previdente e che la sorte di ognuno, ecco l’unico dato vero e giusto, è decisa dal caso, che rende tutti uguali di fronte alla cecità anarchica e folle della violenza. La stessa che ha ucciso i genitori di Bruce. Joker non ha disegni e non mira a un bottino, rende i mafiosi che se ne vorrebbero servire miserabili pedine del suo gioco dissolutore e divertito. Joker è l’acqua di stagno del fragile Batman: se non si potesse in lui identificare il male, lui che come Batman (il male minore) è una potenza anarchica senza identità (e certo senza Genitore), la quotidianità degli umani, l’efficienza stessa di Gotham City, risulterebbero di una noia mortale.

In tale teatro meccanico e senza fini di cui sono spettatori arrabbiati quanto risibili replicanti, i cittadini devono essere artatamente rassicurati che ci siano ancora persone buone e ragionevoli, icone di una giustizia (Dent) in realtà beffata dalla capacità del Joker di precipitare nella follia anche il più retto (Dent finisce trasformato in un Duefacce come le monetine della sorte). Alla fine del gioco non è il male a cedere alle forze previdenti e rigeneratrici del bene, bensì l’avatar nerofumo del bene, alias Batman, che assumerà su di sé l’onere e la colpa di rinviare senza scopo il giorno della finale deflagrazione della città dell’uomo (vi allude in un illuminante apologo il fido maggiordomo di Wayne), a rivelare i tratti sinistri e violenti di quell’alea a cui cerca invano di dare un volto e assegnare una responsabilità. Accolta dal riso che un’autolesionistica lama ha immortalato nella maschera di Joker, quella di Batman appare non più come l’irruzione del deus ex machina, bensì come la sbuffante e svaporata sgommata di una machina ex deo. E noi ad aspettare, a cavallo di un autovelox incapace di fotografarne il ceffo, il prossimo passaggio.

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