Sabato pomeriggio, in attesa dell’annuncio del Palmarés, mentre salivo, per l’ennesima volta, la scalinata dell’Hotel Hyatt, il centro operazionale della stampa al Festival di Berlino, ho incrociato un collega e ci siamo messi a parlare cercando di fare un pronostico sui premi di quest’edizione.

Ovviamente, per definizione, questo tipo di esercizio lascia il tempo che trova, se riferisco questo episodio è perché non solo nessuno di noi due era stato in grado di indicare degli eventuali papabili ma soprattutto perché nessuno aveva potuto citare un solo film veramente eccezionale che, distinguendosi da tutti gli altri, potesse meritare, almeno in teoria,  di vincere l’Orso d’Oro.

A conti fatti il concorso internazionale di questa 64 edizione della Berlinale non ci ha offerto dei film memorabili come – mi limito a questi ultimi anni- The Turin Horse di Béla Tarr, un autentico capolavoro, o Tabù di Miguél Gomes, una scoperta entusiasmante.

Il concorso è stato quest’anno relativamente piatto, senza grosse sorprese, senza opere mozzafiato, senza film capaci di lasciare una traccia duratura nella storia del cinema.

Detto ciò, nella grande marea dei 22 titoli presentati in competizione c’erano senza dubbio alcuni film ben costruiti, delle storie capaci di appassionare il pubblico con la loro narrazione (Boyhood di Richard Linklater) o di sedurlo e divertirlo con il loro universo visuale (Grand Hotel Budapest di Wes Anderson, No man’s Land di Ning Hao) accanto a qualche opera ancora un po’acerba ma promettente ( ’71 di Yann Demange , Kreuzweg di Dietrich Bruggemann e Macondo di Sudabeh Mortezai) e ad una pepita  unica e particolarissima;  Aimer boir et chanter, l’ultimo film di Alain Resnais.

Fra i ventidue lungometraggi in lizza per l’Orso d’Oro c’era anche un gruppo di film la cui presenza in un concorso internazionale di questo livello ci ha lasciati francamente sconcertati sollevando delle domande di fondo sui criteri di selezione della manifestazione. Mi riferisco in particolare a Praia do futuro di Karim Aïnouz, storia contorta e ridondante di un amore omosessuale su sfondo di tragedia famigliare, Zwishen den Welten di Feo Aladag che evoca con una retorica ambigua la presenza delle forze armate tedesche in Afganistan, Kraftidioten di Hans Peter Morland un epigono barocco e sconclusionato di Pulp Fiction ubicato nell’inverno glaciale della Norvegia e ancora Aloft di Claudia Lllosa un deludente vaniloquio new age, infine Historia del Miedo di Benjamin Naishtat, un film pseudo-sperimentale, vacuo e pretenzioso.

Il soggetto statisticamente più trattato dai film in concorso è stato quello dell’infanzia e dell’adolescenza: Macondo, Boyhood, Jack e Kreuzweg ci hanno offerto una serie di ritratti sensibili e variegati di questa tematica mettendo di volta in volta l’accento sul processo di crescita e la formazione della personalità o sul confronto traumatico  dei giovani protagonisti con  un ambiente sociale o famigliare ostile.

Sempre tracciando le grandi linee della selezione di quest’anno bisogna sottolineare che accanto alla presenza d’ufficio di un notevole contingente di film tedeschi – sono stati  quattro quest’anno: Kreuzweg di Jack di Edward Berger,  Zwischen den Welten di Feo Aldag,  Die Geliebte Schwestern di Dominik Graf e Jack di Edward Berger- la Cina, con ben tre titoli in concorso, è stato il secondo paese più fortemente rappresentato nella competizione internazionale. 

Senza grande trepidazione la stampa ha potuto seguire il Palmarés in diretta in una sala allestita appositamente, sperando che la giuria riuscisse, dopotutto, a fare delle scelte illuminate.

L’attribuzione dell’Orso d’Oro a Black Coal, Thin Ice di Diao Yinan è stata una sorpresa.

Il presidente della giuria James Schamus, grande conoscitore di cinema e uomo di cultura e i suoi colleghi sono stati sedotti da questo film noir atipico che sembra dovere molto, per certi suoi aspetti, alla tradizione hollywoodiana del genere. Eccessivamente lungo e contorto, con notevoli scarti di stile e mood, Black Coal, Thin Ice è un film che sembra costantemente cercare se stesso esitando sulla via migliore da seguire, di volta in volta. L’ambito Orso d’Argento per la migliore interpretazione maschile è stato ugualmente conferito al suo protagonista Liao Fan, nel ruolo di un detective torturato e romantico smarrito sulle tracce di un enigmatico assassino.

No man’s Land di Ning Hao, un western folle e sovversivo, pieno d’inventività che aveva penato a lungo per ottenere l’avvallo della censura cinese, non ha invece incontrato i favori della giuria che ha preferito premiare il terzo film cinese in concorso Blind Massage di Lou Ye con L’ Orso d’Argento per la migliore fotografia.  

Finita la cerimonia della premiazione, in una sala conferenze piena solo a metà- la maggior parte dei giornalisti era già partita giovedì e venerdì- mi sono trovata circondata da un folto gruppo di colleghi cinesi sovraeccitati e felici per i premi vinti dai loro compatrioti ma altrettanto entusiasti ed esaltati all’entrata in sala di Richard Linklater di cui sembrano avere particolarmente apprezzato Boyhood, a giusto titolo premiato con l’Orso d’Argento per la migliore regia.

Dal Palmarés non poteva mancare una prodezza tecnica e visuale come The Grand Budapest Hotel di Wes Anderson, un film che gioca sull’iperbole di ritmi, personaggi, colori ed ambientazioni,  ricompensato con il Grande Premio della Giuria.

Alain Resnais, 91 anni, ha dimostrato di essere il regista più giovane in concorso alla Berlinale di quest’anno, vincendo per Aimer, boir et chanter l’Alfred Bauer Preis, premio attribuito a un film che apre nuove prospettive.

58 anni dopo Nuit et Bruillard  e 51 anni dopo un film radicale e necessario come Muriel, le temps d’un retour, il maestro francese riesce a stupirci e a sedurci ancora con un’opera delicata e profonda come uno Haiku. Laddove altri si sentono in dovere di accumulare immagini su immagini, moltiplicare ad libidum personaggi e luoghi o dilatare il tempo del rodaggio sul corso di anni ed anni Resnais ‘gioca’ a fare del cinema con pochi mezzi ma con una percezione infallibile per l’essenziale.

Questa concisa, ineludibile lezione di cinema costituirà, ne sono convinta, il marchio distintivo di questa 64 edizione della Berlinale nel tempo.

[foto di Maria Giovanna Vagenas]

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