Bob DylanChi sei?”, “Che domande”. Ecco l’illuminante risposta che Alias (interpretato da Bob Dylan) dà allo scagnozzo mandato da Pat Garrett nel meraviglioso film di Sam Peckinpah dedicato alla lunga lotta che Garrett ingaggiò contro Billy the Kid -e forse contro se stesso.

Todd Haynes ci avrà sicuramente pensato nel suo film-saggio, mockumentary, anti-biopic, fiction, inchiesta, oltre la linearità e il genere, I’m not there. Un pezzo alla volta e tutti insieme a schizzare fuori in diverse direzioni. Frammentato, apparentemente disgregato, prisma psichedelico più che delirio, entità visionaria e multiforme come il suo soggetto, in cui struttura ed esplosione si alternano senza dar conto del tempo, in cui ragione e sentimento staffettano tra i sei personaggi in (non)cerca di Bob Dylan oltre che all’interno di ciascuno di essi. Sei per due fa dodici. E forse non bastano ancora.

Mollare gli ormeggi di buon mattino, captain. 

Ecco allora che Haynes riesce a non impantanarsi nell’intellettualismo per forza di adesione sentimentale, mille miglia lontano dai cerebralismi di Greenaway, presente a Venezia con Nightwatching, anche lui teso a smontare le classiche strutture cinematografiche ma muovendosi come su un tavolo operatorio.  

Via la linearità della storia, allora, e spazio alla frantumazione del significato che diventa a doppia e tripla stratificazione, alla sensorialità del colore e del bianco e nero, della pellicola e del video, dei cristalli e della grana grossa, del tempo inteso come flusso interiore -e non solo il proprio (un nuovo umanesimo? ). In una sovrapposizione/sovraesposizione di tanti "Io" quante sono le persone che fanno il mondo. Poveri cristi, viaggiatori senza la buccia del giorno, cantautori di campagne, strade e possibilità, falliti e visionari, suonatori Jones dalla coscienza pura, pacifisti e rockstar, esistenzialisti e cinici facili alle ferite, profeti di un verbo posticcio senza più nulla da perdere, rinunciatari.    

Essere in tutti nello stesso tempo.

“Può una canzone cambiare le cose?”, chiede il piccolo Dylan/Woody (Guthrie, il musicista folk molto amato da Dylan e che per primo associò musica tradizionale e testi politici dando il via a quel movimento popolare urbano, declinazione rinnovata del folk un po' conservatore delle campagne, che Dylan rese visibile e diffuso), assetato e ambizioso ragazzino di colore che vagabonda seguendo il solco dei treni. E la risposta che ascolta, seduto a riposarsi presso un tavolo popolare del sud, è che lo stile ha bisogno di un contenuto da esprimere, il viaggio di un radicamento da raccontare: “vivi il tuo tempo, canta il tuo tempo”, gli dice la donna di colore porgendogli con ruvida dolcezza della minestra. 

  C’è poi l’androgino Dylan/Jude (interpretato da una splendida Cate Blanchett), paradossalmente la pelle più mimetica del mosaico vivente “Dylanland”. Siamo nel periodo elettrico – quello venuto dopo l’impegno politico e sociale in giro a cantare il proprio tempo con la donna che si capisce bene essere Joan Baez (Julianne Moore) -in cui cupezza esistenziale e disimpegno vittimistico si stemperano nei tratti levigati e morbidi della Blanchett, in cui il tradimento del quale fu accusato si frantuma contro la risposta che il vero Dylan diede dal palco ad un fan che lo appellò di essere un Giuda: “quello che stai dicendo non è vero, sei in errore”, frase cristallina, canzone che continua. O quando, sfuggendo alla limousine e all’intervistatore/giudice seduto di fronte, non riesce a non dire “non permetterò che mi ferisca in questo modo”, braccia a sostenere le spalle e gambe già in strada.

Stacco. Ritorno nel b/n sgranato con Dylan/Arthur (Rimbaud). Lo vediamo qui sfidare il caos davanti alle forze dell’ordine. Stessa giacca ma più calzata e stessa sigaretta obliqua, forse gli occhiali scuri di Jude/Cate in tasca.              

Questa panoramica (de)soggettivante potrebbe continuare in un gioco teso a svelare tutte le coincidenze, i riferimenti, le citazioni e le rappresentazioni presenti nel film. Ma quello che rimane più impresso, a guardare bene, è che lo scavo decostruente di Haynes, piuttosto che una rappresentazione sugli espedienti adottati da un artista onnipotente e nevrotico per non rischiare, tener su una maschera e non darsi alla realtà che può bruciare, è forse uno studio appassionato teso a tirar fuori l'uomo dal mito. Vivere tante vite per entrare in comunione con gli altri e farsi permeare dalle esperienze, dagli incontri, dalle tante facce che compongono il mondo e che di ritorno, nel possibile riconoscimento, definiscono profondamente anche la propria. Cambiare per conoscere e riconoscere. Tutto il contrario della nevrosi difensiva che paralizza e maschera. Con la consapevolezza che ad accettare la complessità c’è da lacerarsi e da espandersi attraverso scissioni più o meno sostenibili, ma che forse ne vale la pena.  

Un treno lega il bambino stupito Woody al vecchio stupito Billy, l’inizio alla fine del film. “Non si può mai dire quello che sarà”, dice Billy/Dylan/Haynes e tutti gli altri da sopra quel treno in corsa.

Titoli di coda, la musica continua. Dopo Cat Power, Calexico, Sonic Youth, è la volta di Anthony and the Johnson, creatura complessa e di fragilità resistente, a interpretare le parole di Bob Dylan.

Questo falso documentario è stato approvato da Bob Dylan. Pare s'aggirasse nella sala con addosso la vecchia giacca nera e degli occhiali rossi mai visti.  

 

** ”Tutti i miei film hanno abbandonato la struttura lineare aristotelica composta da un inizio, uno sviluppo e un finale. Questa struttura non m’interessa perché se non trasgredisci i codici del racconto non vai avanti… non possiamo continuare con una forma tanto conservatrice e ottocentesca!”, dice l'ottuagenario filmmaker Pere Portabella davanti a una pianola meccanica che deglutisce le variazioni di Bach e a una macchina da presa che danza. Un vino rosso accanto e una stella chiamata Il silenzio prima di Bach a scorrere davanti, altro splendido anti-biopic visto quest’anno a Venezia, sezione Orizzonti.    

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