A sette anni dal flop di Chimera, Pappi Corsicato scomoda nientemeno che La Marchesa Von O di Von Kleist (dal cui romanzo il film è molto liberamente tratto) per mettere in scena una commedia nel suo perfetto stile, in una Napoli irriconoscibile: il film è ambientato, infatti, nel futuristico Centro direzionale della città partenopea dove Caterina Murino scopre di essere incinta nel giorno stesso in cui al marito, Alessandro Gassmann, viene diagnosticata la sterilità. Il tutto dà vita a una serie di situazioni paradossali e divertenti, che cadono talora nel trash, in cui Corsicato affronta con grande leggerezza temi scottanti quali l’aborto e la violenza sessuale. Viene abbandonata la sperimentazione delle sue precedenti prove, ma Pappi conserva lo stile ai limiti del surreale e del kitch a cui ci ha abituati fin dai tempi di Libera. Uno stile che omaggia, com’è palese, Almodovar: dalle ambientazioni degli interni con i colori accesi delle scenografie (la cucina sembra rubata dal set di Volver), ai personaggi, con una Caterina Murino dagli abiti sgargianti truccata alla Penelope Cruz. Così come nella rilevanza di una straordinaria componente attoriale tutta al femminile: dalla stessa Murino, sempre più italiana e mediterranea, a Martina Stella, perfetta nel suo ruolo di cubista, alla sorprendente Isabella Ferrari, la vera rivelazione del film, che finalmente abbandona gli sguardi tragici e patetici a cui ci ha abituati rivelando una fisicità e una carnalità che la portano ad assumere in maniera credibilissima le pose e le movenze delle femmine napoletane.

Dietro il mondo di Corsicato non ritroviamo comunque solo Almodovar, ma tutto il retroterra culturale della grande esperienza teatrale legata a nomi di registi e scrittori quali Annibale Ruccello ed Enzo Moscato, che fin dagli anni Ottanta hanno indagato e portato alla ribalta il mondo queer napoletano, e in cui acquista una valenza fondamentale la dimensione della femminilità. Proprio le donne assumono nell’immaginario di Corsicato un ruolo fondamentale, vincente e avvincente, donne che riscattano con la loro sensualità e la loro “presenza” la totale inettitudine e assenza del maschio, imbelle, intimidito e sterile, non solo dal punto di vista fisiologico; donne, soprattutto, che anche quando mentono, sanno mantenere intatta la loro veracità, in un mondo basato su relazioni falsate e finte. Una finzione che si traduce nella recitazione innaturale dei personaggi, nelle acconciature, nelle movenze, nella scenografia di una Napoli atemporale e priva della sua immagine di degrado e splendore dove nessuno parla in dialetto; tutto è sopra le righe, a tinte forti, dalle inquadrature coloratissime, al montaggio si oserebbe dire frizzante, alle citazioni, tantissime, di film culto, da Via col vento alla Corazzata Potmekin ad American Beauty. Proprio le citazioni sono funzionali alla creazione di una realtà parallela, fatta di pose e atteggiamenti che non sono verosimili, ma che sembra l’unica nella quale i personaggi sembrano capaci di muoversi e relazionarsi: l’emblema di quanto detto è forse soprattutto il personaggio di Nike, la commessa-cubista Martina Stella che ha il nome di un paio di scarpe, che sembra venuta fuori da un fumetto e che rivela il disagio di chi sogna una vita da velina ma non ha i mezzi e le capacità per farlo e perciò si costruisce un mondo parallelo fatto di sfilate in vetrina (del negozio) e balletti da drag queen.

Il regista napoletano porta alle estreme conseguenze l’esasperazione della forma, innaturale e quasi onirica in certi momenti, una forma che tuttavia non gode mai di se stessa ma si fa linguaggio, veicolando un contenuto che c’è e non è tanto esile come è apparso a qualcuno. Un contenuto che è forte, con temi, anche drammatici, che Corsicato non vuole (e non sa) trattare in maniera realistica e lineare, ma a suo modo, nel modo “anti” a lui più congeniale. Vedendolo a Venezia mi ero chiesto se fosse opportuno che un film del genere fosse presente nel Concorso: a distanza di un po’ di tempo credo invece che Il seme della discordia abbia fatto da giusto contraltare agli altri film italiani in concorso, probabilmente un po’ troppo “nelle righe”.

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