Buio. Voci umane. Terrore. Morte. L'11 settembre apre in filigrana Zero Dark Thirty, per poi precipitare brutalmente negli abissi delle torture che i militari CIA attuano (e attraversano?) pur di ottenere il pragmatico nonchè sacrosanto risultato – o almeno questa è la giustificazione che si danno. E’ la guerra, bellezza. O meglio (molto meglio) è l’ossessione che da sempre finisce per accompagnarla. E’ l’ossessione per il rischio e il diventare eroi. E’ l’ossessione della morte. E come tutte le ossessioni, finisce per autodistruggere chi la incarna e (ambiguamente) la interpreta. Tuttavia è ossessione che affascina, anche perché il cinema della Bigelow ha una peculiarità – che potremmo riassumere nell’essere il medesimo “affetto” da un’ambivalenza costitutiva – spiazzante: fissità e ripetizione dello schema attento a seguire con scrupolo l’uso di codici, procedure e dispositivi (militari, tecnologici, di gruppo), altissima definizione dell’immagine, ma poi, reciprocamente, un'enorme possibilità di (ambigua) espansione e quasi di liberazione del significato.

Bigelow usa una lente di precisione (ma anch’essa spesso preda di un qualche ossesso) con la quale incidere e perfezionare le immagini, ma ciò non al fine di raggiungere una qualche staticità (di movimento, di senso), ultima e rassicurante, bensì per arrivare a superare il limite illuminato dell’equilibrio e così poter infrangere (e a volte proprio fracassare, nella migliore tradizione americana), tramite la creazione di un oscuro punto di rottura, il confine tra realismo e intrattenimento, informazione e spettacolo, giustizia e vendetta. Ovvio che poi la tensione diventi altissima.

Non è un caso, infatti, che il realismo di Bigelow tenda da sempre alla derealizzazione (e quindi allo smascheramento) della vita reale, e ciò all’interno di una cifra che sembrerebbe riallacciarsi alle pratiche artistiche dell’iperrealismo. Una chiave che serve alla regista per svelarere al meglio l’ambivalenza tra pulsione di morte e principio di piacere che l’essere in guerra produce (ricordiamoci l’orrore sacro di Kurtz in Apocalypse Now). La metafora portata avanti da Bigelow, refrattaria a misurarsi con indagini psicologiche e ordinari minimalismi, potrebbe allora ravvisarsi in questo: poichè la dimensione razionale è sempre messa in dubbio da un inconscio (individuale e collettivo) selvaggio e violento, illuminare le zone di oscurità dell’eterna guerra di cui facciamo parte è l’unica verità possibile.  

E se, in questo senso, il personaggio interpretato da uno smagato Jason Clark rientra abbastanza nel cliché del militare afflitto dalle contraddizioni di chi affronta costantemente dei rischi attuando procedure che non di rado annientano l’umano (lascerà gli scantinati dove conduceva gli interrogatori “resi operativi” dall’uso di strumenti di tortura, per l’immaterialità del potere degli uffici CIA a Washington), è il personaggio di Maya, la protagonista, agente CIA soprannominata “il killer”, a mettere più in difficoltà. Perché seppur privo di sfumature psicologiche (e narrative) credibili e dotato di forza e determinazione quasi sovraumane (fa piacere, in ogni caso, vedere come la Chastain abbia finalmente dismesso lo stucchevole e ipertradizionale ruolo di donna angelicata affibbiatole in The tree of life), in realtà è proprio sul suo personaggio che si consumerà la sconfitta che è l’approdo finale di ogni ossessione (in una specie di nemesi, si direbbe, del “dover essere”). Così che, dopo aver passato ogni giorno della propria vita a controllare ogni dettaglio e ogni movimento del nemico Osama (e non per catturarlo, si badi bene, ma per ammazzarlo: e perchè'? forse per uccidere la propria paura e rinascere onnipotente? forse perche la potenza di uccidere trasmette ancora, e a maggior ragione in un mondo sempre più gretto e paradossale, il senso del sacro?), Maya, in un magnifico piano fisso in cui il rosso dei capelli si impiglia e sfuma nell’intreccio di cavi d'acciaio simili a sbarre di una prigione, si ritroverà a fare i conti con il vuoto (anch’esso costitutivo) della vita umana. E il vuoto, a giocare a riempirlo troppo e troppo a lungo, alla fine non può che diventare il buio iniziale.

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