[***] – Dicono che gli anni ’70 siano tornati di moda, ma non è proprio vero. Al cinema non ne siamo mai stati tanto lontani. Un film struggente come Walkabout, appena visto al Senza Frontiere Film Festival di Roma, non si potrebbe più fare oggi nel bene e nel male. Abbiamo modificato il nostro modo di piangere e di commuoverci, ma sappiamo ancora riconoscere come eravamo soliti farlo – da spettatori – trent’anni fa? Ci sono film che invecchiano bene, altri che invecchiano male e alcuni che non invecchiano. Odissea nello spazio non invecchierà mai, la pellicola di Roeg è invecchiata bene e male allo stesso tempo. Quei campi lunghissimi alternati a zoom improvvisi su schifose creature del deserto, i ralenti alla rovescia, il montaggio parallelo fra i differenti modi di intendere violenza e amore da parte dell’utilitaristica e sprecona cultura occidentale, rispetto alla parsimoniosa e rispettosa Weltanschauung aborigena, tutto un repertorio datato e ingenuo, insomma, che chiama allo sbadiglio, ma sa risvegliare emozioni scomparse… E un dubbio atroce, farneticante: come artisti, come spettatori, come individui, siamo diventati meno liberi?

Walkabout è una parola tornata alla ribalta, per alcuni, grazie al serial televisivo Lost, e come tutti i termini migliori è intraducibile. Girare intorno, camminare alla ricerca di se stessi, mettersi alla prova e compiere un’iniziazione, e forse qualcosa ancora, un termine che affonda le sue radici nelle culture indigene dell’Australia – ma che è facilmente accostabile ad analoghe pratiche proprie di civiltà “primitive”, dall’Africa agli indiani d’America, fino ai popoli Inuit e chissà dove altro ancora. Perdersi in giro, per ritrovarsi e diventare adulti. Alla fine, si smarrisce sempre qualcosa – la propria innocenza, nel film di Roeg – per avere accesso a un livello successivo – la consapevolezza, forse – e spesso il cambio fa abbastanza schifo.

Una splendida ragazzina – Jenny Agutter, che rivedremo giovane donna nell’indimenticato Un lupo mannaro americano a Londra di John Landis e altrove – e il suo fratellino vagano nello sterminato bush australiano dopo essere stati aggrediti a pistolettate dal papà impazzito che si è poi suicidato. Un perfetto esempio di gentleman arrivato nello sterminato spazio aperto dalla civiltà anglosassone, che ha perso il senno. Roeg parte da qui e si prende un grande lusso che il cinema ha forse un po’ smarrito, quello di non spiegare niente, di non stare a raccontarci i perché e i per come, esplorando trascurabili ghost nel passato dell’uomo. È la prima libertà, al limite del kitsch, forse l’accusa più spietata e calzante che sia stata mossa aglia anni Settanta, quando la follia sembrava pronta a esplodere ogni volta che gli uomini del mondo civile vedevano spalancarsi davanti la potenza selvaggia della natura – da Un tranquillo weekend di paura fino a Non aprite quella porta o Le colline hanno gli occhi. Poi i ragazzini, ormai dispersi, si imbattono in un giovane aborigeno impegnato nel suo Walkabout, quell’Inizio del cammino ripreso dal titolo italiano. È l’incontro con una frontiera mai varcata, l’avvicinamento fra culture opposte che si scoprono simili al di là delle differenze superficiali, ma irriducibili al di là delle somiglianze più profonde. A far detonare tutto è l’amore, non ricambiato, fra il ragazzo aborigeno e l’eterea adolescente bianca, che condurrà prima lui, poi forse anche lei, verso un epilogo tragico. Perché anche la ragazza, in un finale impregnato di quella malinconia di cui forse abbiamo dimenticato gli ingredienti – ma che sappiamo ancora riconoscere con un po’ di attenzione – comprenderà di aver speso i momenti migliori della sua vita nuotando nuda in un lago australiano con uno sconosciuto selvaggio.

Un cinema dilatato e rarefatto, insomma, ma contenuto nei tempi. L’esatto contrario dei pupazzi robot che si gonfiano di botte per tre ore negli ultimi blockbuster estivi. Un cinema libero, che ha il coraggio di mostrare ragazzini in un nudo integrale senza che nessuno gridi allo scandalo, e animali selvatici che muoiono davvero, le cui arterie vengono strappate a coltellate da cacciatori indifferenti finchè l’ultima goccia di sangue nonsi rovesci a litri nella polvere. Come non prendere tutto terribilmente sul serio, di fronte a tanta verità? Come non accorgersi che è la libertà di messa in scena – oggi perduta da un cinema castigato eppure violentissimo, casto ma subliminalmente pornografico – a garantire tanta autenticità? Se la verità rende liberi, si può forse dire che la libertà renda veri. E la ragazza protagonista, nel finale cresciuta e sposata, al cospetto dell’insignificante civiltà a cui è voluta tornare, sa di averla perduta quasi tutta.

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