RETROSPETTIVA VIENNALE E FILMARCHIV AUSTRIA

 IL PARADIGMA PRODIGIOSO :  REGISTI-AUTORI AUSTRIACI DEGLI ANNI OTTANTA

Parte quarta: Zechmeister di Angela Summereder

Cronologicamente l’ultimo film di quest’antologia, Zechmeister uscito nel 1981, opera prima di Angela Summereder allora giovanissima, è il primo ad avere beneficiato pienamente del nuovo finanziamento statale messo a punto in Austria nel 1980 per sostenere la cinematografia nazionale.

Diversamente dai suoi colleghi nel corso degli anni settanta, Summereder ha potuto valersi di un processo di produzione tradizionale anche se, scontrandosi con le sue idee anticonvenzionali, questo nuovo contesto sembra averle creato non pochi problemi nel corso della realizzazione del film.  

Inquietante, sinistro, con qualche sprazzo di autoderisione ben dosato, Zechmeister è un film che taglia come un coltello, ci assidera come il salto in un lago ghiacciato, ci colpisce con un dolore muto. Zechmeister racconta la storia di un errore giudiziario, quello commesso nei confronti di una donna innocente, Maria Zechmeister, condannata a perpetuità per un crimine che non aveva commesso. La sorte di Maria ha ossessionato la mente della regista fin dai tempi della sua adolescenza, continuando a seguirla con la forza dell’inevitabile. A decenni di distanza, osservando questa vicenda con la lucidità di chi appartiene ad un’altra generazione, Summereder capisce che Maria Zechmeister è stata condannata in primo luogo perché donna.

Questi i fatti all’origine del film: nel 1949 Maria Zechmeister è stata condannata all’ergastolo dal tribunale di Ried per l’omicidio proditorio (assassinio a tradimento) di suo marito, senza prove e senza confessione. Il giudizio si è basato unicamente su chiacchere e dicerie.

Il film è formalmente un ibrido costruito in parte dalle riprese documentarie di Maria Zechmeister stessa, liberata in seguito ad un’amnistia dopo 17 anni di carcere, di sua sorella, di alcuni testimoni dell’epoca e di una mole di documenti legali come i verbali del processo o il referto del medico legale e in parte da une serie di scene di finzione interpretate da attori professionisti, (reenactment) in cui vengono immaginati e ricostruiti eventi sparsi legati alla vicenda. Costruito a blocchi, il film si compone di una serie di scene autonome che si susseguono indipendenti ma strettamente connesse l’una con l’altra.  

Con la precisione di un chirurgo la regista compone, quadro dopo quadro, l’affresco gigantesco di un crimine ma di un crimine diverso da quello presumibilmente perpetrato da Maria. Scegliendo come sua arma la distanziazione Angela Summereder mette a nudo l’altro lato della medaglia svelandoci, passo dopo passo, la mentalità meschina della gente del paese e la caparbietà dei pregiudizi che hanno condotto impunemente alla condanna di un’innocente.

La regista non mira ad una ricostruzione storica dei fatti, né tantomeno vuole coinvolgerci emotivamente attraverso un’identificazione con la sua sfortunata protagonista, al contrario, ci propone di guardare in modo distaccato ed imparziale i tanti tasselli che hanno reso possibile questa vicenda, lasciando aperta ogni eventualità interpretativa.

Lo spettatore –spiega in un’intervista dell’epoca – deve avere la possibilità di scoprire il film per conto proprio. Deve poter guardare, ascoltare, meravigliarsi. Un rumore, una nuova immagine devono poter essere una sorpresa, una scoperta. Guardare un film dovrebbe essere un po’ come conoscere una persona nuova.’

Seguendo un procedimento rigoroso, Summereder costruisce un film che potremmo definire etnologico in cui la lingua parlata diventa lo spartiacque fra il “popolo” e chi detiene cultura e potere. Da un lato ci sono i paesani, gli abitanti del luogo, Maria stessa e sua sorella che parlano il dialetto dell’Upper Austria e dall’altro i magistrati e la polizia – interpretati da attori professionisti- che parlano il tedesco colto usando una dizione particolarmente lenta ed enfatica.

Ogni sequenza è un quadro o, più precisamente, un riquadro coscienziosamente ritagliato nel paesaggio, un attimo fissato nel tempo, una composizione di personaggi nello spazio; le scene di finzione sono teatralizzate, antinaturalistiche anche quando si svolgono in piena natura sotto un tiglio millenario, sull’acqua del fiume Inn, oppure nel cimitero del paese. I gesti degli attori sono spesso formali, ieratici, al contrario le scene documentarie in cui interviene Maria o sua sorella sono filmate da un angolo che ci permette d’intuire la presenza del corpo di chi parla, mostrandoci forse una spalla o le mani, senza mai svelare un volto. La presenza fisica si condensa in questo caso nella voce, nel racconto di fatti, di ricordi, di impressioni.

Il film, girato in sedici millimetri, ha un’immagine lievemente granulosa che ostenta una gamma cromatica dai toni smussati; i campi arati sono di un verde pallido, sul corso del fiume si stende una bruma diffusa, anche il vecchio casolare di Maria sembra avvolto dalla foschia come se il passare del tempo avesse depositato uno strato di polvere e di oblio sul mondo e sugli uomini. In questa rimemorazione del passato, la cineasta cerca delle ipotesi, delle tracce, delle risposte alla sorte di Maria Zechmeister. L’inquadratura diventa un campo d’indagine che lo sguardo della regista ordina privilegiando delle composizioni geometriche; delle lunghe carrellate percorrono lo spazio senza soluzione di continuità riproducendo il flusso inesorabile del tempo.

Zechmeister è un film di montaggio, la sua potenza evocatrice nasce da una distonia costante fra il suono e l’immagine. Giocando magistralmente con una pleiade di voci in off, la regista crea un fitto tessuto di rimandi e di connessioni insospettate.  Tocchi di umore e momenti satirici sorgono qua e là temperando la gravità dei fatti con la forza liberatoria dell’autoderisione.

Zechmeister è un film di spettri, è un film su un vuoto. Nel corso della vicenda ci rendiamo conto che la questione se Maria abbia ucciso suo marito o meno diventa man mano sempre meno importante; l’indagine, la ricerca più che un fatto in sé mira a esplorare uno stato di cose.

Zechmeister infine ci rivela una nuova voce: una voce di donna. Questa voce è duplice; è quella della regista ed è quella di Maria Zechmeister che per la prima volta è invitata a raccontare la sua versione dei fatti, la sua storia, i suoi pensieri ad un’altra donna che non vuole giudicarla ma vuole lasciarle il tempo e lo spazio della parola. Il film e declinato al femminile anche dietro la cinepresa; Angela Summereder ha voluto circondarsi della complicità e dello sguardo di Hilde Siegel alla fotografia e di Dorte Volz al montaggio.

Nel suo film coraggioso e radicale proiettato al Forum des neuen Films a Berlino nel 1985  Summereder gratta la vernice obsoleta del conformismo provinciale mettendo a nudo la mentalità ipocrita, meschina e il pesante retaggio storico del suo paese, cosi facendo apre la strada a tutta una schiera di cineasti, la cosiddetta Austrian New Wave, che continuerà nei decenni seguenti l’esplorazione della faccia nascosta della società con ancora maggiore crudezza trasformando questa postura in un vero proprio marchio di fabbrica del cinema made in Austria.

Ciononostante anche per Angela Summereder, come è successo per la stragrande maggioranza degli autori-registi degli anni 70, dopo questo film cruciale seguirà un lungo periodo di allontanamento dalla creazione cinematografica, sarà soltanto negli anni 2000 che la regista riprenderà questa attività che esercita fino al giorno d’oggi.

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