di Armando Andria/ Più che fuori concorso Monrovia, Indiana, l’ultimo lavoro di Frederick Wiseman presentato a Venezia, è fuori categoria. Fuori categoria, perché al grande cineasta del Massachusetts, diversamente da alcuni (molti?) dei suoi colleghi che hanno popolato il concorso ufficiale della Mostra, poco importa di realizzare film per qualcuno (per il pubblico, per le giurie dei festival, per i broadcaster TV) e prosegue un viaggio del tutto personale che da 50 anni, senza che le circostanze possano intaccarlo, attraversa il cinema mondiale come una luce nel buio: un autentico percorso di conoscenza.

Ma andiamo con ordine. Monrovia, nello Stato dell’Indiana, è un paese di piccole dimensioni (1400 abitanti), collocato nel Midwest rurale, abitato da una comunità unita e solida negli interessi culturali e religiosi. Come di consueto, Wiseman accende la camera su alcuni luoghi e momenti che reputa cruciali nella vita della comunità, per comporre un’esplorazione articolata ed esauriente (143 minuti) e che possa rendere conto della cittadina in tutti gli aspetti del suo cursus quotidiano. E quindi abbiamo accesso, tra gli altri, al consiglio comunale, alla scuola superiore, a un negozio di armi da fuoco, a una barberia, a un allevamento di animali, a una clinica veterinaria, alla celebrazione di un matrimonio e di un funerale, persino alla sede della locale loggia massonica (!).

L’impressione generale durante la visione è quella di un luogo in cui il tempo si è fermato. Una città morta o moribonda, dalle strade spesso poco battute, popolata per la maggior parte da anziani, persone sovrappeso, nessun nero in giro né rappresentante di altra minoranza etnica; una città, inoltre, in cui le armi da fuoco sono parte della vita quotidiana come un qualsiasi elettrodomestico. Ascoltando i discorsi che si tengono al diner o alla festa cittadina, in cui si ricorda quello storico campionato liceale di football in cui la squadra locale prevalse, viene da domandarsi se gli abitanti di Monrovia mettano mai piede fuori dai confini cittadini.

Insomma, la parola conservazione, e con sé tutta la costellazione lessicale e di senso legata all’America trumpista, viene prepotentemente alla mente. Ma così saremmo dalle parti di un giudizio, quello che Wiseman, campione dell’osservazione, non apprezzerebbe, quello che di sicuro non cerca di produrre con la sua opera.

E infatti, a guardare con più attenzione alla forma di questo Monrovia, Indiana, emerge qualcosa di molto interessante, che marca una leggera ma significativa differenza rispetto ai suoi più lavori recenti come Ex Libris o National Gallery. Quelli – e potrà sembrare un paradosso, viste le durate in entrambi i casi superiori alle tre ore – erano parsi film “più montati” del solito, con scene sempre di lunga durata ma in qualche modo autoconclusive di un discorso. Lì Wiseman sembrava maggiormente alla ricerca di qualcosa: un dialogo rivelatore, un gesto esemplare. Qui invece il tempo dell’osservazione – analogamente ai suoi storici studi sulle istituzioni pubbliche degli Stati Uniti – torna maggiormente a dilatarsi, lasciando all’osservatore tutto il tempo per farsi un’idea propria su quello che sta guardando. Le scene sono apparentemente prive di una forza di racconto autonoma: perché questa forza l’acquistano solo se connesse alle precedenti e alle successive, altrimenti il mosaico non può essere leggibile. Monrovia, Indiana non dà mai l’impressione di voler dimostrare qualcosa, e così di esaurire la ricerca: la ricerca, ancora una volta, è appena iniziata.

Da qui, e ce lo si perdonerà una volta tanto, il prologo apologetico, ma Wiseman se lo merita. Monrovia, Indiana è probabilmente il titolo più radicale della sua filmografia recente: come a dire che all’88enne documentarista non sono venute meno né la lucidità di sguardo né il coraggio di perseguire la sua ricerca e di condurla fino ai suoi lidi più autentici.

 

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