Scheherazade non l’avrebbe inclusa tra le storie da raccontare nelle sue Le mille e una notte, colta dal dubbio di rimetterci la testa, come le altre mogli del re. E certamente la storia pecca di autenticità se la favola, alquanto buonista, viene riportata sullo schermo da un regista e scrittore francese che vive in Uruguay. Ma non è il caso di essere troppo cavillosi se oggi, 10 luglio 2014, il titolo di prima pagina di un quotidiano scrive: “Gaza, i carri armati al confine”. E se agli extracomunitari che vengono per mare solo noi italiani porgiamo la mano – il mondo della cultura europea, almeno, abbraccia i più sciagurati mostrandocene l’oggettività e narrandocela, come fa Estibal.

Jafaar –l’attore Sasson Gabai – è uno sfortunatissimo pescatore palestinese schiacciato, come la sua gente, nella striscia di Gaza, dove nella striscia, appunto, sono comprese solamente sei miglia di mare, acque poco pescose. Lì ogni giorno il pover’uomo non rinviene altro che ciabatte e cose inutili restituite dai fondali. La pantomima dell’uomo che espone al mercato il misero pescato –  quattro o cinque sardine –, tra lo scherno di altri pescatori ben più fortunati, è l’inizio di una serie di aneddoti che fanno oramai parte di quel cinema mediorientale che sa ben raccontare la tragedia e la guerra – senza fine – in chiave ironica. A tal proposito mi viene in mente Nadine Labaki con il suo “E ora dove andiamo?”. Da parte sua Estibal, francese, dell’ironia ne fa addirittura aperta dichiarazione fin dal titolo. E così il sarcasmo addolcisce immagini che, diversamente, saprebbero solo di incommensurabile amarezza: dagli ammiccamenti dei bambini, che giocano tra le macerie della guerra non disdegnando di maneggiare un kalashnikov come fosse un giocattolo, alle miserie della gente che ha poco o niente, vivendo in locali fatiscenti, in libertà limitata, in indigenza assoluta.

Ma Jafaar pensa solamente a darsi da fare per mettere insieme i pasti e per pagare i debiti che lo risparmieranno dalla gattabuia. E’ gettando la rete, dopo un giorno di tempesta, che all’uomo succede una cosa alquanto strana: cigolando per il troppo peso, il tramaglio del gancio che si usa per issare lascia intravedere un grosso animale scuro che emette suoni “minacciosi”: un maiale di razza vietnamita, probabilmente caduto da un cargo durante la tormenta. Il verro, in sintesi, aiuterà Jafaar a vivere, fornendo clandestinamente il seme per riprodurre altri maiali utilizzati dai soldati israeliani per individuare materiale detonante. Rivelata così mi rendo conto che la pellicola non possa far pensare ad altro che ad una emerita idiozia, sulla quale vien voglia di non soffermarsi ancora. Ma qualche pregio, questa piccola opera leggermente affettata, ce l’ha. La storia sottolinea ampiamente i punti in comune tra il popolo israeliano e palestinese non entrando nei dettagli politici e poco anche in quelli culturali: il film non vuole affrontare alcuno scoglio quanto accomunare le genti, sottolineandone l’aspetto umano, identificando tutti in un’unica natura –profondità o semplificazione? Certo la conta dei morti reali di questa assurda e lunghissima guerra è un’altra Storia. Ed il maiale, la bestia immonda, diventa simbolico, elemento di coesione delle due razze, poiché è proprio quando entrambi, ebrei e palestinesi, finiscono per schiacciarlo che dimostrano davvero di essere fatti della medesima realtà tangibile e dello stesso insegnamento: fondamentalmente (e brutalmente) umani. Inoltre, questo animale non trova pace – metafora dell’oppresso –  vivendo rintanato nella stiva di una barca o nella vasca della casa o all’interno di una lavatrice senza motore, modificata per nascondere il suino, scarrozzato comicamente dalla bici sconquassata di Jafaar, qua e là per la città.

Il maiale, d’altra parte, si cela sotto una pelle di pecora per non mostrare quello che veramente è così come Jafaar vive malcelato ai soldati israeliani, praticamente stabilitisi dentro la sua casa. Il suino viene addirittura assoldato, così come Jafaar, per divenire un martire – Jafaar bersaglio di palestinesi ed ebrei, quindi – tanto che, l’uomo e la bestia, alla fine appaiono beffardamente simili e differenti, cintati entrambi dall’esplosivo, ignari e imperturbabili nella medesima ricerca del cibo, persino reclutati loro malgrado nonché filmati per l’annuncio di congedo, come ogni martire.

Tutti divengono perseguitati e persecutori, in un groviglio di contraddizioni divenuto insolubile.

Nel finale, addirittura la ricerca/farsa di una nuova, ipotetica terra di pace accomuna  persone disuguali -e pure il maiale; e mentre in strada si balla alla luce del giorno sembra di udire un’assonanza che diviene vibrazione: pace, pace, pace… e allora basta, finiamola, vogliamo tutti la stessa cosa e ve lo chiediamo ridendo ma con la morte nel cuore.

Ecco, vale la pena di vedere quest’opera semiseria, dal semplice messaggio umano, una storia per ridere (amaramente) e per considerare e ricordare una lunga guerra, mai finita, ripresa aspramente in questi giorni: ieri, oggi, ora.

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