di Marino Galdiero/ Perché dilungarsi tanto nello scrivere di un film? Per il desiderio di condividere una esperienza che sfugge al regime di una manciata di caratteri? Per non consumare immagini su immagini? Per restare su quanto visto, rimanere in un luogo del desiderio, permanere in quel mondo apparso sullo schermo del cinema? O ancora, più complicato: la scrittura ripete in qualche modo il piacere dell’esperienza cinematografica contenendola, mima l’inquadratura del film per difetto, diviene così, inevitabilmente, un doppio straniante. È così?

Questi pensieri hanno trovato forma rincorrendo nella mente le immagini iniziali di Tre manifesti a Ebbing, Missouri: la nebbia che proietta lo sguardo verso un orizzonte indefinito – dentro una storia in cui i caratteri e giudizi non possono essere certi, sfumano via eterodiretti da presenze fuori campo a noi sconosciute. Le prime inquadrature ci dicono che qualcosa manca, siamo in assenza di qualcuno, che come poi scopriremo è questa ragazza, Angela, violentata e uccisa. Insieme alla nebbia ci sono i cartelloni, sagome scheletriche, schermi tombali sui quali iscrivere la rabbia e il dolore di una madre, Mildred Hayes, interpretata da Frances McDormand. Lei vuole sollecitare la polizia locale a indagare sul delitto della figlia, per questo affitta i cartelloni dove affigge tre messaggi diretti a Bill Willoughby, sceriffo di Ebbing.

Prima ancora di entrare dentro la narrazione, c’è però un ulteriore richiamo che modella la visione dello spettatore: il brano musicale che accompagna le prime immagini. È una canzone che ha una lunga storia, si intitola Last rose of summer (L’ultima rosa d’estate), ed è tratta da una poesia scritta dal poeta irlandese Thomas Moore. I versi raccontano di questa rosa rimasta sola sotto il sole caldo della stagione, una solitudine insopportabile, perché simile ad una vita senza amicizie. Chi vorrebbe “mai abitare, / solo, questo arido mondo?” scrive Moore. E allora: “Non ti lascerò sola/a languire sul tuo stelo,/ ora le belle stanno dormendo,/vai a dormire con loro./Quindi gentilmente spargo/le tue foglie sul letto/dove le tue compagne di giardino/giacciono senza profumo, morte”.

Un tono elegiaco, che misura il dolore della perdita, la rabbia per le risposte che non arrivano, la malinconica insensatezza della violenza e del male e al tempo stesso invita a lasciar andare, quanto oramai non è più vita. Passaggi che richiedono una riscrittura della storia, di quanto accaduto che è enorme – l’uccisione con stupro di una ragazza – tanto da richiedere di essere circoscritto dentro codici chiari, anche per rimettere insieme il senso delle cose. In questo film si procede così alla continua riscrittura intorno a un episodio mancante visivamente e moralmente: un omicidio e il suo responsabile. Martin McDonagh è come se piegasse e distendesse la narrazione, in una ricerca che non trova mai la soluzione, produce false piste narrative ma guadagnando al tempo stesso un punto di vista nuovo dentro relazioni sclerotizzate.

La drammaturgia si muove su due linee polari: segue la corrente principale, quella della protagonista che cerca “giustizia”, e dall’altra percorre una direzione diversa. Da una parte annuncia il tragico dell’esistenza, in una storia che vira inesorabilmente verso il nero, l’oscuro che sempre minaccia la piccola comunità di Ebbing; dall’altra, con una strategia retorica antifrastica, strappa minuto dopo minuto, lungo lo scorrere del film, occasioni di speranza, di ironia e sommessa allegria. Non c’è nulla di retorico in questo disegno, proprio perché sfumato, impalpabile e penetrante come la nebbia del mattino.

McDonagh è ispirato dalla scrittrice statunitense, d’origine irlandese, Flannerry O’Connor –  quando Mildred Hayes entra nell’ufficio dove affittano i cartelloni, il ragazzo che gestisce l’attività sta leggendo A Good Man Is Hard to Find – sia per quanto riguarda il tono grottesco e imprevedibile delle vicende umane, sia per questa ricerca del bene sulle strade della dannazione, la grazia nel territorio del diavolo. Del resto – ma non è il solo – non è un colpo di rovescio quello dello sceriffo Bill Willoughby che lascia delle lettere ai personaggi chiave del film, dopo essersi tolto la vita?

Frances McDormand, ancora una volta bravissima, indossa una sorta di divisa per interpretare Mildred Hayes: una tuta blu che non toglie quasi mai durante il film. Ha un carattere mascolino, un cowboy che poco concede alla femminilità, un John Wayne che poi però eccede in sentimenti. Insieme all’agente Dixon, ruolo ricoperto da Sam Rockwell – pur se su fronti opposti che pian si avvicineranno, sotto una costellazione inaspettata – sono anche il ritratto di un’America violenta e intollerante, che ricorre alle armi per farsi giustizia da sé. Sono loro due la cifra finale del film, in quei continui scarti narrativi che piegano le logiche dello spettacolo e dei generi, resti che sospingono a ulteriore rilanci di scrittura, inquadrando svolte il cui fine non è mai dato per certo.

Esiste dunque uno scrivere di cinema che ripete le dinamiche dei film, di quei film che ci consegnano percorsi non prefissate dalle leggi dell’ovvio e del consueto? Certo, al di là dei canoni. E le immagini, anche incompiute, non lasciamo ugualmente e sempre un margine di ambiguità che sfugge ai loro stessi autori, tanto da permettere comunque profili di film mai esistiti? E c’è un limite in tutto ciò?  

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