di Simone Rossi/A Ebbing, Missouri, lungo una strada abbandonata dal progresso, una donna sola e arrabbiata paga la locale agenzia di pubblicità per riempire tre cartelloni con la propria disperazione. A quella donna è stata assassinata (e violentata, e molto altro)  la figlia  sette mesi prima, proprio su quella via cancellata dalle cartine stradali.

I cartelloni raccontano, con tre laconiche frasi su sfondo rossoarancio, quanto è accaduto e si domandano il perché dello stallo nelle indagini facendo infine nomi e cognomi, coinvolgendo cioè la massima autorità della comunità, lo sceriffo Willoughby.

McDonagh conosce il potere della parola. I cartelloni della signora Mildred Haynes (una colossale Frances McDormand) con i suoi concetti semplici e le sue verità scontate scuotono la comunità fin nelle fondamenta, dimostrando quanta differenza possa passare tra la realtà conosciuta e quella sbattuta in faccia. Nessuno è più al sicuro, o perlomeno, nessuno ha più voglia di abbozzare. La rabbia esplode e contagia tutti, in maniera sgangherata e grottesca e sembrerebbe non trovare soluzione se non nell’annientamento dell’altro. Eppure qualcos’altro si muove. E banalmente, ma è il caso di dirlo, è la vita stessa. Sono i suoi accidenti quotidiani, i conflitti irrisolti, le relazioni potenziali, ad incrinare questo perfetto quadro d’odio. Perché non esiste un solo modo di essere e non è pensabile un solo e unico sentimento. E allora assistiamo ad un film in cui a restare immobili sono soltanto i cartelloni piantati a terra; il resto si sposta, cambia angolazione e inizia a confondere le idee dello spettatore.

La classe di McDonagh sta proprio nel riuscire a tramutare la sterotipia dei suoi personaggi (si prenda l’agente Dixon quale inevitabile pietra di paragone: un super Sam Rockwell) in evoluzione e cambiamento, sfruttandone i cliches fino al parossismo e infine piegandoli alla narrazione, incanalandoli in una direzione che finisce per sublimarli in gesti ed atti tanto inconsueti quanto già profondamente e naturalmente nelle corde del loro Essere più autentico. L’America descritta da questo ‘non americano’ è una provincia opprimente che mette in fila – come i cartelloni pubblicitari del titolo – le sue evidenze: razzismo, misoginia, bigottismo, e che nel momento stesso in cui le denuncia ne mostra gli sciocchi limiti preferendo concentrarsi su quanto c’è ancora al di sopra, ovvero la classe di appartenenza. I poliziotti stanno coi poliziotti; i nani che non si provino a non esserlo; i cappellani sono un tutt’uno col proprio gregge; e una donna che vuole giustizia che non abusi del proprio dolore. Una visione apparentemente senza speranza se non fosse per la giustizia del suo opposto: ogni stupratore è uno stupratore, ogni assassino è un assassino, ovunque si trovi e qualunque altra strada abbia intrapreso.

A Ebbing, Missouri, la tragedia dell’esistenza ha venature da commedia nera. Tre cartelloni sono lì a ricordarcelo e almeno per un anno ci resteranno. Una donna sola e arrabbiata sa che il dolore cambia, ma non finisce, né ha diritto di precedenza sulle disgrazie altrui. E’ solo una questione di tempo e visibilità. Bisogna stare sul pezzo. Non mollare.

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