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Il primo anno da terzo festival del cinema italiano per importanza anziché secondo, causa sopraggiunto bulldozzer-Festa di Roma, è stato apparentemente vissuto qui a Torino senza grandi drammi. Anzi, a giudicare dai dati, questa è stata la miglior edizione del Torino Film Festival di sempre, per affluenza alle sale ed incassi.

Organizzazione

Logisticamente il Festival ha potuto contare su 9 sale distribuite in 3 cinema, i confermati attigui Massimo e Greenwich e l’esordiente Ambrosio, collegato ai primi due da un servizio navetta gratuito o da 20 minuti di passeggiata per le restaurate e affascinanti vie del centro, tempo e voglia permettendo. Le variazioni di programma sono state piuttosto limitate, così come i ritardi nelle proiezioni e le file. Più del lecito invece i problemi con i sottotitoli. Il personale era in numero adeguato e molto gentile e disponibile.

Insomma, 24 edizioni sulle spalle hanno permesso una fluidità organizzativa piuttosto invidiabile.

Purtroppo, il minor risalto dato alla manifestazione dai media ha fatto emigrare gli elargitori di bibite e snack in prova gratuita verso altri lidi. Unico omaggio, acqua da prelevare con bicchieri da boccioni. Nel complesso, comunque, l’organizzazione merita un bel 7 e 1/2.

Concorso lungometraggi

Se la buona organizzazione è stata la risposta positiva a quella acerba della Festa di Roma, la selezione delle pellicole del concorso lungometraggi è stata quella negativa, o comunque quella difficile, aspra, spigolosa. Forse di fronte alla nuova concorrente si è sentita più urgente la necessità di interrogarsi su cos’è il TFF, delimitare con chiarezza il proprio territorio, e renderlo unico ed indispensabile rispetto a tutti gli altri. Il TFF nasce come Cinema Giovani e propone per l’appunto pellicole giovani, tanto per età degli autori quanto per tentativo di riformare il cinema concettualmente. Quest’anno si è tornati a questo aspetto prepotentemente, invertendo la rotta tracciata lo scorso anno con una buona percentuale di film narrativi – più o meno belli, più o meno riusciti, ma comunque narrativi.

I 12 film selezionati sono quasi tutti indigesti, difficili, incompiuti, noiosi, spesso privi di urgenza se non addirittura di ragione d’essere.

Ha spopolato il genere “docufiction”, dove si fa finta di riprendere la realtà così com’è o quasi e questo giustifica l’assenza di plot, la cattiva recitazione e la regia sporca. Ne sono rappresentanti: Manoro (voto 4 e 1/2), che se non altro ha il merito di suscitare una certa simpatia. Reanglao Jak Meangnue (voto 3), un insopportabile affresco di vita rurale nord tailandese, dove il regista costringe sadicamente la macchina da presa a fissare il nulla per 87’, facendole però credere di vedere chissà che. Flòr da Baixa (voto N.C.), così lo presenta l’autore Mauro Santini: “Realizzato senza sceneggiatura, autoprodotto, girato a basso costo senza messa in scena, camera a mano, rubando nella vita di inconsapevoli “attori”, Flòr de Baixa si è composto da sé”. Si vede. Buyi Zhi Le (voto 2), che riesce ad unire riprese inguardabili a storie insulse, caos a noia, incapacità ad autocompiacimento. Dicono che il regista ha avuto problemi politici per girare questo film. Sinceramente non ne valeva la pena.

Il secondo filone è quello dei film dove è sempre preponderante la cornice ma dentro c’è un quadretto, vale a dire una storia un po’ più consistente e articolata. Bled Number One (voto 5-) è la storia di un algerino che dalla Francia viene rispedito nel suo paese d’origine, dove deve fare i conti con una realtà dove tra integralisti e moderati islamici non si sa chi è peggio. Delle tante storie aperte non se ne chiudono che un paio, la recitazione è appena sufficiente, buona la regia, discreti i dialoghi, pericoloso e ambiguo il messaggio (anche se non dubito possa rispondere a verità), fastidiosa ruffianeria realizzare le scene in manicomio in un vero istituto con veri malati per recitarle. Ray-e Baz (voto 5 e 1/2) narra la libera uscita dal carcere di Saber, che con un suo caro amico cerca la sorella malavitosa, la fidanzata, il socio in affari che l’ha tradito per vendicarsi. Quello che manca principalmente a questo film sul perdono sono il ritmo e una scrittura dei dialoghi come si deve, ai quali sono stati spesso preferiti interminabili monologhi molto lirici e marcati, a volte quasi comici, non si sa bene se volutamente o meno, che comunque spezzano qualsiasi sospensione di incredulità. 20’ in meno e dialoghi più realistici ne avrebbero fatto un buon film. In Zapiski Putevogo Obkhodchika (voto 6) il protagonista è un controllore del traffico ferroviario in Kazakistan che ha l’anziano padre cieco e portentoso nello scovare irregolarità nei binari, la moglie gelosa, un figlio a scuola i dipendenti invidiosi. Film piccolo e sobrio, molto raccolto nei binari principali della sua trama delle tre generazioni di uomini come se ne discosta un po’ con la storia del tradimento stride), molto ben realizzato il personaggio del vecchio. Forse ogni tanto un po’ ingenuo e lento ma nel complesso una bella sorpresa.

Infine, i film dove più spiccatamente si tenta di raccontare qualcosa, tramite sceneggiatura o regia. Pavilion Sanshuo-Uo (voto 4 e 1/2), un fumettone incentrato su una salamandra gigante e la fondazione che le sta dietro, che comincia lineare ma che a metà del secondo atto esplode e lascia piccoli pezzettini ovunque, lasciando tanti interrogativi irrisolti e un grande senso di confusione nello spettatore. Le Dernier Homme (voto 5-) è un noir psicologico (una grande metafora di Beirut, per l’autore) lento, molto lento, dove la maggior parte degli eventi è impercettibile ed avviene solo nella testa del protagonista. Una regia di qualità ed una buona recitazione al servizio di uno spunto che poteva essere sviluppato in modo molto più godibile. Così è un film per soli iniziati, dove il sottotesto prevale sul testo. Honor de cavalleria (voto 5), trionfatore del concorso, è un film che, come ha detto giustamente la critica, è dotato di molto coraggio, una grande forza lirica ed espressiva, un’estetica molto valida, un’ottima recitazione e una regia sbalorditiva. Anche il tema della confusione mentale, quello più sottile della vecchiaia, del passaggio del testimone padre-figlio, sono ben sviluppati. Molto semplicemente però è inguardabile. 102 minuti di pellicola nei quali non accade nulla (o quasi) sono insopportabili.

La frattura fra me e il mondo della critica dopo il successo di questa pellicola è insanabile. Lo spettatore merita rispetto, credo io, e se devi fare un film di concetto, nel quale l’intero viaggio avviene nella testa del tuo protagonista, o ti inventi qualche mezzo per intrattenere lo spettatore, o lo fai durare un’ora al massimo, oppure lo fai solo per la critica. In verità vi dico che i più calorosi applausi nella proiezione riservata agli accredit
ati sono stati quelli dei critici che più profondamente e più a lungo hanno dormito.

The Guatemalan Handshake e La vie Privée purtroppo non ho potuto vederli, mi dispiace soprattutto per il primo che pare fosse il più gradevole in concorso (voto N.G.)

Nel complesso quindi la scelta di fare un concorso lungometraggi destinato a film che vogliono sperimentare ben venga, anche se bisogna fare i conti con la loro generale bruttezza. Non scordiamoci poi che piazzare una macchina da presa in un posto e lasciare che sia lei a narrare non è una grande innovazione, fare un film muto anche non mi pare questa novità rivoluzionaria, dilatare i tempi tanto meno, ingaggiare attori non professionisti non ne parliamo, fare il filmino delle vacanze idem, e così via dicendo.

Quello che non vorrei è che per ritagliarsi questo suo ruolo esclusivo e identitario il TFF si precludesse ipotesi narrative godibili dalla massa, con un atteggiamento elitario ed autolesionista.

Voto Concorso Lungometraggi: 4-

Fuori concorso

Ben diverso il tenore del materiale fuori concorso.

Nel 2004 il TFF gli aveva dedicato una retrospettiva, quest’anno il grande Luciano Emmer ripaga presentando qui Le Flame del Paradis, un lungometraggio realizzato per la Val Di Non in dialetto che ripercorre la vera storia di una povera contadina condannata al rogo per stregoneria nel ‘600. Ambientazione incantevole, regia pulita, storia semplice e dal tratto quasi fiabesco, il film però soffre del male incurabile di una recitazione a dir poco dilettantesca di quasi tutti gli attori, imbarazzante sopra ogni immaginazione. Imbarazzanti anche gli incisi sulle bellezze della Val Di Non e sulla bontà dei suoi prodotti tipici. Voto 4 e 1/2.

Ad ulteriore riprova che io con i critici cinematografici non ci vado (quasi mai) d’accordo, ho trovato molto bella la Marie Antoinette di Sofia Coppola fischiata a Cannes, mi chiedo con quali criteri. Un film divertente e profondo al tempo stesso, che porta elementi di novità al genere storico-biografico non solo di facciata e che ha un senso estetico di altissimo valore. Probabilmente la sceneggiatura poteva essere più accurata ed attenta ad evitare sbavature. Voto 7 e 1/2.

Nacho Libre è stato il momento in assoluto più divertente del festival, dove il sempre più convincente Jack Black impersona uno sgangherato frate-lottatore di wrestling. Demenziale ma con grande eleganza, la pellicola ha il merito di affiancare ad una storia dignitosa (pare tratta da una storia vera) battute e gag a raffica e soluzioni molto spesso originali, con un ritmo serratissimo dal primo all’ultimo minuto. Voto 7

Da vedere anche Screm of the ants, del bravissimo Mohsen Makhmalbaf, viaggio in India di una coppia, un comunista ateo e una credente, alla ricerca del senso della vita. Più che di vera e propria trama si può parlare di un saggio filosofico-religioso di grande spessore commentato da immagini di grande impatto. Memorabile la sequenza del santone che ferma i treni con l’imposizione delle mani, agrodolce come raramente capita di vederne. Voto 7

Meno convincente Klimt di Raoul Ruiz nella Director’s cut edition. Come ci siamo ormai abituati a vedere con le biografie dei pittori, si è tentato di ricostruire il suo mondo interiore più che quello biografico, la gamma cromatica e morfologica a lui più congeniale piuttosto che il mondo nel quale viveva, con risultati a tratti apprezzabili a tratti irritanti. Di alto livello la regia, buona e monolitica l’interpretazione di John Malkovich nei panni dell’artista, intorno a lui un universo di donne nude il corpo delle quali è usato come oggetto significante carico di espressività. In definitiva, una “fantasmagoria” (per definizione di Ruiz stesso) più che una biografia, che ha da dire meno di quello che vuol far credere e con un eccessivo autocompiacimento. Un film solo a tratti riuscito. Voto 6-

In questa sezione presentati anche, tra gli altri, Flags of our fathers di Clint Eastwood e 98 Octanas di Fernando Lopes, che non ho potuto vedere.

Nel fuori concorso non sono mancate dunque le anteprime d’effetto e i bei film, segno evidente che il TFF è ancora in grado di esercitare fascino e peso.

Voto fuori concorso: 7+

Detours

In questa sezione ho purtroppo avuto modo di vedere solo un lungometraggio, Noroi, del giapponese Shiraishi Koji, un’interessante rivisitazione del genere horror in chiave documentaristica, confezionato con estrema cura ed attenzione ai dettagli, tanto da essere se non credibile perlomeno verosimile per una buona prima metà. Poi purtroppo quando la trama si infittisce di misteri le raffinatezze diminuiscono un bel po’ e ci si avvicina gradualmente sempre di più a un The Blair Witch Project qualsiasi. Performance comunque da ammirare, se non come nuovo tassello nella storia dell’horror perlomeno come riflessione sul labile confine tra verosimiglianza e verità nelle inchieste giornalistiche televisive e nella televisione in generale. Voto: 6+

Non ho abbastanza elementi dunque per fare considerazioni più ampie sulla sezione, alla quale avrei voluto dedicare più tempo ma purtroppo. N.G.

Americana

L’evento che genera più file al TFF anche quest’anno è stato la proiezione dei Masters Of Horror, giunti alla seconda edizione, dove 6 tra i più grandi registi horror contemporanei si sfidano a colpi di mediometraggi di 60 minuti, con budget e tempi di produzione identici.

Brad Anderson ha messo in scena Sounds Like, una storia di iperacusia che assale Larry Pearce (Chris Bauer) alla morte del figlio, togliendogli pace e lucidità mentale.

Di Dario Argento è Pelts, favola splatter animalista dove un branco di procioni assassinati per ricavare una pelliccia dalle loro si vendicano dando morti ai responsabili simili agli atti compiuti su di loro.

John Carpenter anche affronta un tema socialmente elevato, quello dell’aborto, con il suo Pro-life, dove il padre iperreligioso di una ragazza incinta tenta di farla uscire dalla clinica dove è ricoverata e salvare la vita al piccolo, come gli richiede una voce che lui crede di Dio ma che invece è di un orribile mostro.

A favore del femminismo si schiera Joe Dante con The Screwfly Solution, la storia di una terribile epidemia che fa esprimere le pulsioni sessuali degli uomini nei confronti delle donne attraverso la violenza contro le stesse, che vengono quindi sterminate, destinando il genere umano all’estinzione.

Valerie on the stairs di Mick Garris (da un racconto di Clive Barker) è la storia di un autore inedito che va a vivere in un ricovero per scrittori. Qui però gli appare continuamente Valerie, una bellissima ragazza che vive dentro un muro ed è perseguitata da qualcuno…

John Landis, per finire, presenta Family, una specie di Psycho all’ennesima potenza, dove uno scapolo si costruisce la sua famiglia ideale scarnificando gente per gli USA.

Quest’anno Landis e Dante si dividono
il merito dell’episodio più bello, apprezzabile lo sforzo di un horror socialmente utile di Carpenter e Argento, anche se i loro film non mi sono piaciuti molto, così come gli altri due. A parte Anderson, poi, si è ricorsi massicciamente allo splatter, che è una sottocategoria dell’horror che ha fatto ampiamente il suo tempo, parabola discendente cominciata nella seconda metà degli anni ’80, e ben poco ha ancora da dire. Voto complessivo: 6 e 1/2

Presentato in AMERICANA anche un omaggio a Joe Sarno, mitico cineasta tra gli artefici della rivoluzione sessuale tra gli anni ’60 e ’70 con le sue pellicole softcore e, sotto pseudonimi, hardcore fino a metà degli anni ’80. Nell’incontro con l’autore è emersa una personalità competente e garbata, che ha saputo trovare il giusto compromesso tra autorialità e intrattenimento e, dote che l’ha reso particolarmente amato e stimato dai produttori, in grado di tirare fuori dal cilindro un film completo di 90’ con 15.000 dollari (del ’70) e una settimana di riprese! Film che molto spesso decuplicavano e oltre i soldi dell’investimento.

Nell’incontro ha inoltre fatto notare che nella sua filmografia è stato sempre molto interessato all’universo femminile, preponderante anche nella trama, e che del rapporto sessuale preferiva cogliere l’essenza dell’orgasmo femminile piuttosto che di quello maschile. Inoltre, a lui interessava la trama, non l’inquadratura degli organi genitali fine a sé stessa.

Dell’autore ho visto The bed and how to make it! e Inga, questo secondo un grande successo planetario. Due film modesti, certo – The bed and how to make it! con gravi lacune e incongruenze nel plot – ma comunque onesti, divertenti, fatti con grande mestiere, pochi soldi e tanta passione e fantasia e non poche trovate di buon gusto e spessore.

Voto complessivo a Joe Sarno: 8

Anche qui, eventi di peso che ho perso ce ne sono stati, primo fra tutti l’ultimo film di Walter Hill, Broken trail.

Voto ad Americana: 7

Concorso DOC 2006, Concorso spazio Italia, Latitudini, Concorso spazio Torino

Non ho potuto vedere niente. Da segnalare il riscatto di Alberto Momo, coautore con Maicol Casale del documentario vincitore Eliorama, dopo il lungometraggio “Fiaba nera” presentato l’anno scorso assolutamente da dimenticare (ma io l’ho qui ricordato per sadismo e soprattutto masochismo).

Robert Aldrich

Splendida retrospettiva completa dedicata ad uno dei più grandi registi indipendenti della storia del cinema, comprendente tra gli altri Vera Cruz, Kiss me deadly, The big knife e i capolavori celeberrimi What ever happened to Baby Jane? e The dirty dozen. L’eclettico Aldrich ha realizzato film di ogni genere, con risultati sempre apprezzabili, portando note di modernità e il suo tratto personale in ogni messa in scena, dove il sogno americano viene messo a nudo in tutte le sue contraddizioni e l’orrore celato dietro un’apparente normalità.

Voto alla retrospettiva: 8

Claude Chabrol

Con questa seconda parte e l’onore per il secondo anno consecutivo di ospitarlo e fargli presentare il suo ultimo film si conclude questa lunghissima ed anche in questo caso completissima retrospettiva sul grande autore francese. Stavolta si è ripercorsa la sua filmografia dagli anni ’70 ai giorni nostri, per la verità la parte meno attraente, con le dovute eccezioni (su tutte Madame Bovary e Mercy pour le chocolat), oltre ad una serie di lavori per la televisione ed un paio di occasioni dove appare come attore.

Voto alla retrospettiva: 8

Joaquín Jordá

Purtroppo non ho visto niente.

Piero Bargellini

Molto importante questa retrospettiva dedicata al massimo sperimentatore del cinema italiano degli anni ’70. Dei suoi lavori ho visto un blocco composto da 7 cortometraggi in 16mm, tra i quali spicca Trasferimento di modulazione, film di 9’ nel quale il processo creativo dell’autore consiste nella manipolazione di un filmino pornografico preesistente sulla pellicola. Tramite filtri e trattamenti vari Bargellini fa emergere dalla pellicola quella che lui chiama l’Immagine latente. Non ci ho capito molto nel complesso, suppongo sia un autore piuttosto difficile da comprendere, però non ho potuto non apprezzare la forza e la genialità delle sue intuizioni, le sue sculture in movimento che perdono il loro senso originario e ne acquistano uno nuovo dal loro stesso farsi guardare, un po’ come avviene appunto in buona parte dell’arte contemporanea, che forse deve a Bargellini più di quanto potessi sospettare prima di conoscerlo.

Voto alla retrospettiva: 8

Programmi speciali

Ho avuto la fortuna e il piacere di godere della visione de L’Atalante, indimenticabile e in dimenticato capolavoro di Jean Vigo, in edizione restaurata e che ha recuperato un montaggio quanto più fedele possibile all’originale. Non credo di poter scrivere nulla sul film che valga la pena leggere. Voto: 10

Oltre a questo, Era notte a Roma città aperta, Le Tombeau d’Alexandre e Gli ultimi giorni di Pompei erano in programma in questa sezione ma non ero presente.

Conclusioni

Buona organizzazione, bei cinema, bella cornice di una Torino restaurata e di un folto pubblico, grandiose retrospettive e prestigiosi incontri con autori di prima grandezza per un Festival che ha il suo tallone d’Achille nella sezione del concorso lungometraggi, nella quale un giusto compromesso tra gioventù degli autori, sperimentazione e narrazione e godibilità delle opere dovrebbe essere maggiormente perseguito. Un festival col concorso inguardabile e il fuori concorso eccellente è un festival a metà.

Voci di corridoio vogliono dall’anno prossimo una coordinazione tra Venezia, Roma e Torino. Potrebbe essere portatrice della soluzione definitiva al problema. Me lo auguro di cuore.

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