Perchè sì

Perchè no

 di Marino Galdiero

Centoquarantanove minuti con gli occhi immersi nello schermo, in un atmosfera scura e fredda, sulle strade di Boston, dentro uffici della squadra investigativa, su nei grattacieli, nei retro bottega di locali anonimi, con le voci che corrono dentro i cellulari, e due vite: una parallela all’altra. Due poliziotti: Billy Castigan (Di Caprio) e Colin Sullivan (Damon). Entrambi nati nella zona proletaria della città. Nessuno dei due ha un padre, ne hanno però uno putativo con cui fare i conti. Per il primo c’è il capitano Queenan (Martin Sheen), per il secondo il boss della malavita Franck Costello (Jack Nicholson). Vite intrecciate e speculari, in cui finzione, tradimento e menzogna si arrotolano a spirale, in mille pieghe sfuggenti, una a complemento dell’altra, quasi fino a confondersi. Billy per riscattarsi della sua nascita in un ambiente malavitoso, accetta di entrare sotto copertura nella banda di Costello. Colin che invece sogna l’ascesa sociale e l’agiatezza mai conosciuta, si trasforma in un talpa dentro il corpo di polizia. In apparenza giocano sullo stesso lato della scacchiera, nei fatti terminano l’un contro l’altro armato, e non tanto per definizione esplicita di ruoli e parti, quanto proprio per carenza di identità che li fa soggetti ad una facile manipolazione di altrui interessi. Scorsese con The Departed, ispirato fedelmente ad un successo di Hong Kong, Infernal Affairs di Andrew Lau e Alan Mak, mette da parte New York e gli italoamericani, per spostarsi fra i malavitosi del Massachusetts. Questo spostamento provoca un cambio, un abbassamento della temperatura: quell’impasto visivo sonoro di Quei bravi ragazzi, in cui canzoni, violenza, immagini, battute componevano un qualcosa di esplosivo, una energia spudorata (mi vengono in mente le gioiose fiamme infernali di Casinò), frutto di una ambivalente complicità con la materia narrata, qui si raffredda, grazie ad un allontanamento dello sguardo, una presa di distanza che denota un ulteriore lavoro di stile su ogni inquadratura, lasciando emergere da uno sfondo pulsante e oscuro gli intensi dialoghi dei protagonisti. Tale densità, anche temporale, è spazzata via da un ritmo serrato che alterna le scene, con tagli di montaggio acuminati, in una sorta di equilibrio instabile che precipita lo spettatore in una incessante altalena di situazioni, non dandogli mai tregua, immergendolo e distaccandolo di continuo.

The Departed potrebbe ridursi ad un’ unica (e legittima) intenzione: vi stiamo narrando una bella storia. Non credo si tratti di ciò. Gli elementi che la compongono potrebbero stare in tanti gangster movie. Anche se in questo caso c’è una nota tipicamente orientale col tema dell’apparenza e la realtà, secondo il quale tutto ciò che è sotto i nostri occhi è illusione. Più che l’originalità dei fatti, prevale la costruzione dell’intreccio nella sceneggiatura scritta da William Monhan. Un intreccio che potrebbe in qualche modo non fermarsi mai, variare e ripetersi all’infinito, la narrazione riprendere in qualsiasi istante dopo l’ultima immagine che ha sancito istituzionalmente la fine del film. Quasi a confermare, negando ipoteticamente la conclusione della proiezione, che veramente il mondo è pura illusione, immagine deprivata di un fine, e quindi anche di un senso. Se questo è l’orizzonte, consegnato completamente alla visibilità, i tormentati temi di Scorsese – il bene e il male, la verità e la menzogna, i padri e i figli, la famiglia – paiono non avere lo stesso peso che in passato, almeno sino a prima di Gang’s of New York. Insomma, pare esserci uno slittamento verso una certa contemporaneità sociale, senza per nulla scadere in spiegazioni sociologiche, e cercando invece di dare forma ad un sentire che ci riguarda.Departed ti rimane appiccicato addosso, uscito dalla sala – pur con quel finale che sembra messo lì apposta per far tirar un sospiro di sollievo allo spettatore, così che possa sbarazzarsi dell’assurdo – continua a girarti dentro, si insinua in zone rimosse dalla quotidianità. Billy – Di Caprio, soffocato da una vita costretta alla dissimulazione, grida con rabbia al suo capo: “Ridatemi la mia identità”. E la vuole indietro perché oramai è alienato da ciò che è, non è più lui, la finzione a cui si sottopone per infiltrarsi nella banda di Costello, lo priva di se stesso. Avviene in lui un’alienazione che non si produce più nella fabbrica fordista di Tempi moderni, e in quella maniera, ma che non è per questa ragione scomparsa. Al contrario è diffusa in quel gioco di mascheramento delle identità proposto dalla tecnologia, con incontri virtuali e nickname multipli, e ancor di più nell’idea di flessibilità del lavoro che assegna ruoli diversi da esercitare a seconda delle richieste del mercato. Ogni giorno attori per qualcosa che non desideriamo. Sì, è così. Ecco perché Scorsese, in modo segreto, e non potrebbe agire diversamente, pena esser facilmente etichettato, e deprivato della sua forza, tocca in profondità uno dei mali dell’Occidente: la vita diventata spettacolo.

 di Alessandro Borri

Di fronte a The Departed, si ha la netta impressione di qualcosa nato vecchio, più o meno come il Black Dahlia di De Palma. Come se Brian e Marty, cavalieri della old-new Hollywood, si fossero persi quarant’anni dopo gli esordi nel loro mondo di estasi cinefile, nell’attonita contemplazione del proprio virtuosismo, fuori dal tempo, dalla storia. E se per De Palma questo raggelamento manierista è parte integrante della sua poetica, Scorsese solitamente riesce a ravvivare la tendenza all’iper-cinema mortuario con un’energia visionaria e un’inclinazione al lato selvaggio peculiari.

Niente di tutto ciò nel suo celebrato ritorno al gangster movie, che sembra più che altro un pretesto per “rifare” il suo cinema più amato e imitato, quello di Goodfellas. Ci sono certo le proverbiali esecuzioni, saggi di icastica brutalità urbana, le fiammate barocche di sangue, i pezzi di bravura da delibare a parte (tutta la sequenza del cinema a luci rosse e del pedinamento nella Chinatown notturna). Pure, questo sfoggio di classe poggia sul vuoto, su un non-ritorno emotivo che stupisce, soprattutto dove lo si paragoni al prototipo, il primo capitolo della saga degli Infernal Affairs (IA) di Andrew Lau e Alan Mak.

Monahan ne riprende paro paro il meccanismo (con qualche innesto dagli altri capitoli), eppure, pur linearizzandolo (mancano i flashback sugli infiltrati da giovani) riesce ad appesantirlo e a togliergli mordente: 50 minuti in più del resto si sentono tutti. Se passiamo al confronto tra attori e personaggi, poi, la debacle si fa totale. Nicholson che fa la solita routine del matto psicoghignesco diverte per due scene, alla terza ci si chiede dov’era con la testa Scorsese quando invece di mettergli le briglie l’ha lanciato a ruota libera sulle sue praterie caricaturali; la sottile e sorridente perfidia di Eric Tsang è su ben altri livelli. Martin Sheen viene sacrificato (letteralmente e strutturalmente) fin troppo, laddove il commissario di Anthony Wong era essenziale nell’economia di IA. Quanto ai due bellocci DiCaprio-Damon, oltre all’inarrivabile carisma di Andy Lau e Tony Leung Chiu-wai, non possono attingere neanche alla profondità tragica dei rispettivi personaggi, incatenati da 20 anni alle proprie identità fittizie, a un inferno senza possibili vie d’uscita. Alla fine, l’unico personaggio ben svilippato dallo sceneggiatore è quello di Vera Farmiga, la psicologa presa tra due fuochi nella terra di nessuno dell’identità.

Quanto a Marty, mette il pilota automatico, e tutto quello che riesce a inventare per personalizzare la commissione è l’humus irlandese della vicenda, e l’immissione di una certa aura ironica e cinica che va a sostituire le metafore religiose e le ombrosità filosofiche dell’originale: ma, sinceramente, se la grana delle allusioni è sul livello del topolino (the rat, corrispettivo della talpa italiana) che se ne passeggia sul balcone nell’inquadratura finale, non stiamo messi bene.

Agli adoranti lodatori del capolavoro annunciato, consigliamo la visione di IA, serie completa, di cui tra l’altro il numero 1, modello dell’operazione scorsesiana, è il perno archetipico e spettacolare, ma non la riuscita più interessante, superato com’è dalla nostalgica epica coppoliana di IA2 e dai deliri destrutturanti di IA3. A The Departed concediamo il rispetto che si deve al grande antiquariato da intenditori, col profumo del legno intagliato di una volta. Ma quando – su tema simile, tra l’altro – hai visto lo splendore del futuro con Miami Vice, le sue bellurie passatiste hanno poco da dirci.

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