Nel concorso principale del TFF, tra le prime opere viste, si fa strada con quieta determinazione Le démantèlement, che riporta a Torino il regista canadese, québécoise per la precisione, Sébastien Pilote. Dopo Le vendeur, visto qui nel 2011, Pilote con il film presentato quest'anno conferma una predilezione per le vicende che hanno a che fare con vite aggredite dalla storia, per la narrazione di epoche e uomini che vanno incontro a una fine inesorabile.

Il film del 2011, suo esordio nel lungometraggio, raccontava di un venditore di auto sul punto di ritirarsi, insieme a un mondo che colava a picco, nel pieno della crisi economica che in questi anni sta colpendo fortemente (anche) il Canada. La storia di Le démantèlement ruota intorno a un anziano allevatore québécoise, Gaby, che da anni porta avanti da solo la sua fattoria, con l’unico aiuto di un ragazzino desideroso di imparare il mestiere, la compagnia di un cane inseparabile e le visite di un amico affezionato. Improvvisamente la sua normalità viene turbata dalla richiesta di un’ingente somma di denaro da parte di sua figlia maggiore. Per aiutarla, Gaby non potrà che andare incontro alla stessa sorte di molti altri allevatori nella zona, cioè vendere – o meglio, smantellare – la sua fattoria.

Quello di Sébastien Pilote è un cinema lineare e trasparente che gioca con lo spettatore a carte scoperte. Sin dall’inizio è chiaro che lo sguardo su Gaby e sul mondo che egli rappresenta è intriso di affetto e malinconia per un tempo che è stato e non sarà più; è uno sguardo terminale. Nelle prime sequenze la camera si prende tutto il tempo per descrivere il lavoro quotidiano dell’uomo, nei campi e nelle stalle, col solo accompagnamento sonoro dei rumori del lavoro e dei versi degli animali. Il senso che una perdita sia imminente è già intenso. La bella fotografia di Michel La Veaux (l’ultima pellicola 35mm sviluppata dalla Technicolor a Montréal…) rende potentemente gli sterminati paesaggi canadesi, mentre emerge piano una splendida chitarra folk, che caratterizza la colonna sonora di Serge Nakauchi-Pelletier. Il tempo e il mondo di Gaby sono interamente là, tra le sue pecore e l’attesa delle saltuarie visite delle figlie che vivono in città, ed è lì che con fare da documentarista si piazza fin da subito l’occhio di Pilote.

Poi, senza fretta, il regista pone il suo protagonista a confronto con gli altri personaggi: uno alla volta, valorizzando ogni confronto – con le due figlie, con l’amico, con l’ex moglie, con altri abitanti della zona – nell’unica direzione che conta, cioè quella dell’effetto che il confronto sortisce sull’anziano uomo ai fini della determinazione della sua decisione finale, del suo sacrificio. Qui, sulla vicenda in sé, l’ispirazione arriva a Pilote tanto dalla realtà storica del Québéc di cui si è accennata la criticità (nella regione del Saguenay–Lac-Saint-Jean, da cui proviene il regista, la situazione degli allevatori e delle fattorie pare sia particolarmente drammatica), tanto dalla letteratura più classica (come Papà Goriot di Balzac, da cui è presa per intero una battuta di Gaby: «Per essere felice, un padre deve sempre dare»).

Un cinema che lascia emergere il calore sottotraccia, prima sgombrando fisicamente il campo dalle emozioni forti, assumendo una distanza piena di rispetto tra sé e le vite che mette in scena, per poi recuperare i sentimenti, quando la vita impone al protagonista il tempo della scelta. Come avesse imparato la lezione di un Clint Eastwood e tendesse alla stessa classicità, Pilote lavora di sottrazione, priva il dramma dei suoi luoghi più vieti, si affida al tempo che passa, e al volto e al corpo straordinari dell’attore che dà vita a Gaby, Gabriel Arcand, senza il quale Le démantèlement semplicemente non avrebbe potuto essere. 

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