Londra, capitale europea della finanza, della musica, del teatro. Ma il cinema? Come se la passa la settima arte, stretta tra i mille volti della capitale europea più internazionale? Il 52esimo London Film Festival ci offre l’occasione di un inedito bilancio globale sul rapporto che la capitale britannica ha con l’industria e con gli spettatori.

Come tutte le grandi città di ogni paese, a Londra si concentra l’offerta cinematografica più ampia di tutta la Gran Bretagna. Mentre in Italia, però, Roma stacca di poco le altre città in quanto a disponibilità di film distribuiti, Londra è, come per ogni altro suo aspetto, addirittura su una scala diversa rispetto alle medie e grandi città britanniche. Non c’è solo qualcosa in più, c’è un microcosmo culturale ed economico che fa riferimento solo a se stesso. Come prevedibile, la stragrande maggioranza delle sale è in mano a un piccolo gruppo di catene. Odeon, Cineworld, Vue, ogni marchio possiede numerosi cinema, ogni cinema si articola su molte sale.

Forse il primo elemento che colpisce, il più visibile rispetto all’Italia, è proprio questo. Gli equilibri urbani e sociali della fruizione cinematografica sono da almeno 15 anni articolati intorno alla dialettica tra tradizione e progresso, anima e tecnologia, individualità e massificazione. In una parola, dallo scontro tra la sala tradizionale e la forma multiplex.

Londra sembra aver sotterrato, se non risolto, questa ambivalenza. L’agilità di un luogo che ha trovato la sua grandezza con e grazie alla modernità, e che la modernità non l’ha subita in periodi di declino, ne fanno un ospite ben predisposto. Qui, i grandi cinema multisala hanno perciò già vinto. Allo stesso tempo hanno smesso di vincere con la forza, e sono diventati parte del tessuto urbano.

Laddove la grande città italiana li vede stringere l’assedio partendo dalle ultra-periferie, proliferando all’interno dei neonati centri commerciali e dei complessi punti aggregatori “altri” dalla consuetudine sociale, Londra li ha accolti dentro se stessa perché lei cresceva nello stesso momento, urbanisticamente e socialmente, come polo dell’intrattenimento di massa.

Così si spiega l’iconico quadrato di Leicester Square, una piazza-luna park molto chiusa eppur straordinariamente coerente con le sue prossimità, Covent Garden e Piccadilly Circus. Consacrata de facto alle sale che vi si affacciano, Leicester Square promuove un’idea di cinema al massimo livello di de-sacralizzazione, programmaticamente merce tra altre merci (fast food, casinò, biglietterie teatrali). Qui ci sono i cinema più riconoscibili (sia come imponenza che come idea rappresentativa) della capitale, e l’Odeon eponimo è il luogo deputato al gala e ai lustrini in occasione di prime e festival. Tutto è concentrato fino all’alienazione, tanto che le facciate e le entrate della piazza sono intercambiabili: che dietro i vetri scuri ci siano delle sale o delle slot machine sembra perdere d’importanza. A volte per capirlo non basta neanche avventurarsi all’interno: l’Empire ha sostituito la biglietteria fisica con un corridoio da night club e qualche postazione elettronica per acquistare l’ingresso.

Un luogo così autonomamente simbolico è a sua volta incastonato nel cuore del West End, già di suo un brand storico che provvede a spaccare il centro-città, a ripartirne ordinatamente le funzioni, qui a sinistra dell’operosa City e del multiforme East End. Ancora una volta, un risultato possibile solo laddove la città ha la fortuna di crescere e di riflettere su se stessa nello stesso intervallo storico. Londra ha imparato a non aver paura della settorializzazione, di sottolineare per chiarezza e comodità l’arte del consumo. Consumo che a Leicester Square si fa quasi aberrazione, e di certo esposizione di se stesso, non del tutto rappresentativo di cosa voglia dire andare al cinema a Londra.

I biglietti arrivano a toccare le 15 sterline, prezzi da serata in Sala Grande al Festival di Venezia. La casistica delle tariffe è però molto più ampia rispetto all’Italia. Oltre alle diverse categorie di spettatori per cui sono previsti sconti, ci sono anche differenze tra le singole fasce orarie della giornata e tra le numerose collocazioni dei posti. Il risultato è una complessa mole di combinazioni che rendono molto ampio il range di spesa per la fruizione cinematografica. Certo, anche la combinazione più economica ha un costo uguale o superiore al biglietto medio italiano, ma l’offerta è decisamente plurale e “scalabile”, si direbbe in termini informatici. Le logiche di massificazione offrono pro e contro in modo imparziale.

Laddove allontanandosi da Leicester Square si riscontra un’ulteriore fluttuazione di prezzi, con cinema periferici che risultano più economici anche appartenendo alla stessa catena, i film veri e propri tendono a non cambiare, e rimangono sorprendentemente appiattiti sul mainstream, con una forte permeabilità al mercato americano. Si tratta del resto di un fenomeno storico, dovuto alla lingua e non riservato al solo cinema: anche i dati della narrativa letteraria parlano di un’apertura alle opere straniere molto minore rispetto agli altri grandi paesi europei.

Su questo equilibrio di base, però, Londra agisce capitalizzando proprio su quel suo generico, a volte astratto, status di città-mondo. Come anche in alcune città italiane, ma con uno scarto maggiore, la regolare distribuzione nazionale non equivale al numero di film disponibili nella capitale all’occhio dell’appassionato. Tra manifestazioni, istituti, festival, rassegne e molto altro, Londra brulica di opportunità, spesso anche curiosamente contrastanti tra loro. Il simbolismo del Prince Charles Cinema è ad esempio delizioso. Letteralmente nascosto in un vicolo di Leicester Square, lì dove la punta del consumismo occidentale va a confluire nella compattezza di Chinatown, questa piccola sala, ex-grindhouse (i gestori sono stati lesti a salire sul carrozzone delle nuove fascinazioni tarantiniane), propone ogni giorno quattro film diversi a prezzi stracciati, usando al meglio l’arma della membership annuale e offrendo rassegne e gustosi double bill d’annata. Il Prince Charles non è l’unico, e va a coprire quella fetta di audience, spesso mancante in Italia, per cui l’alternativa al mainstream non deve essere necessariamente elitarismo artistico. È anche la linea-guida del British Film Institute o dell’Institute of Contemporary Arts.

Come è ovvio, l’eterogeneità dell’offerta pone un forte accento sulla specificità dei luoghi. Si crea quindi un solido contraltare alla paranoia da multiplex debordante, fino ad ottenere una sorta di equilibrio che è architettonico e concettuale, urbanistico e cinematografico. L’ingrediente segreto è probabilmente l’eredità teatrale: come si sa, il teatro a Londra è più che mai vivo e presente, e ci vuole un certo allenamento, in una prospettiva italiana, per imparare a dargli il giusto risalto nell’ambito di una valutazione sul consumo cittadino di arte narrativa.

Raramente ci si ferma a riflettere su
cosa voglia dire avere a disposizione un doppelgänger del cinema abbastanza forte da opporgli una concorrenza visibile, e ugualmente connaturato alla forma mentis del pubblico. A Londra c’è, e si nota per gli spazi che ruba proprio al cinema. Sorprendentemente popolare nonostante i suoi prezzi (e questo dà la misura di quanto sia intimamente parte della tradizione inglese), il teatro tallona il cinema anche in termini di esposizione mediatica, di pubblicità, di spazio e recensioni sui quotidiani.

Una città come Roma, nonostante un’offerta costante di spettacoli di forte accessibilità (principalmente nella fascia comica), non ha nelle corde la capacità di riempire naturalmente ciò che sta in mezzo tra il monologo del comico televisivo e la messa in scena di una tragedia classica. Il paese che ha portato la borghesia al trionfo ha invece un’offerta tanto capillare da sconvolgere le modalità di fruizione, avvicinando in maniera decisa il mezzo teatrale a quello cinematografico.

Un testa a testa che è nei fatti una guerra di trincea, combattuta da un secolo sul fronte dei quartieri di Londra e sul possesso di locali, molti dei quali hanno sostituito uno schermo a un palcoscenico. Ora i cinema più antichi somigliano a dei teatri, e i teatri somigliano sempre più a dei cinema perchè ne hanno condiviso lo sviluppo. Ecco perchè, complice la penetrazione dei multisala nel centro città, l’amalgama finale tende a sporcare la nettezza del confronto antico/moderno. Leicester

Ciò non toglie che la relativa dialettica sia ancora in corso, spesso nascosta, a volte riconoscibile in dibattiti collaterali, come quello sul pop-corn dell’estate scorsa. Forse la metonimia più pura del cinema da multisala, il pop-corn ha fatto parlare di sè perchè alcuni esercenti hanno deciso di eliminarlo dalle loro sale. Malcelato snobismo, si è detto. Però il vulcanico Daniel Broch, che sta comprando molte nuove sale, ha giurato che saranno tutte libere dal fastidioso snack. Di conseguenza, si è parlato molto dell’impatto che il pop-corn ha sull’economia del settore: la merce più proficua che si possa trovare in un cinema (il BFI lo definì “una sostanza più redditizia dell’eroina e del plutonio”) è cruciale per tenere bassi i prezzi dei biglietti. In un paese preoccupato dalla recente crisi economica più del resto d’Europa, perchè ne vede l’epicentro – la City – affacciandosi alla finestra, la cosa ha avuto la sua rilevanza.

La “mercificazione” dell’esperienza cinematografica, come detto, è un processo compiuto e pacificato in quel di Londra. Molto di ciò che si poteva fare per annullare le distanze tra spettatori e sale è stato fatto, superando anche in maniera decisa la fruizione casuale. Detto della fidelizzazione tramite le membership (tessera annuale a pagamento che dà diritto a sconti), anche gli abbonamenti sono pratica comune. Quello della catena Cineworld è molto popolare e prevede una quota di 15-20 sterline al mese in cambio di ingressi illimitati nei relativi cinema. Significativo che per includere le tre sale all’interno della “cintura” del West End si debba versare un sovrapprezzo, come a ribadire quello status speciale sopra descritto.

Ci sono poi le peculiari bustine rosse che spuntano dai mucchietti di posta giornalmente creati dalla Royal Mail ai piedi delle bianche porte delle abitazioni vittoriane. Ci ricordano il successo di iniziative come quella di Lovefilm, servizio telematico per chi in un certo senso ha deciso di rinunciarci, al cinema. Sempre tramite abbonamento, si ha diritto a farsi recapitare uno o più film in dvd da rispedire al mittente una volta visti.

Una soluzione gradita a molti londinesi, che tuttavia non mette a repentaglio l’istituzione cinematografica; quello inglese è un popolo in cui il seme del piacere narrativo è ben radicato e continua a essere molto solido. Si nutre della diversità massificata che, come per altri aspetti extra-cinematografici, sembra a volte un benchmark di un futuro imminente anche per noi. Staremo a vedere a cosa porterà il suo impatto sulla tradizione italiana.

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