Un lungomare sfigurato, uno sparo in lontananza, delle urla. In fuga concitata dalla polizia, gli adolescenti Michele e Rosario – forse hanno rubato un’auto, forse sanno qualcosa dell’omicidio di un poliziotto – si rifugiano dentro una palestra di boxe. In un attimo smettono i vestiti zuppi di sudore, infilano i guantoni e cominciano a tirare pugni al punching-ball, mimetizzandosi tra gli altri ragazzi, più o meno coetanei, che si stanno allenando attorno al ring. All’arrivo degli agenti, i due non vengono cantati e la scampano. Subito dopo, però, gli altri li invitano ad andarsene con modi bruschi. Michele/Clemente Russo, non ancora Tatanka, ne stende uno con un destro terrificante che incanta l’anziano maestro.

Tratta da un racconto di Roberto Saviano contenuto ne La bellezza e l’inferno, a sua volta ispirato alla storia vera dello stesso Russo, l’opera seconda del 34enne cosentino Giuseppe Gagliardi è già tutta in questa sequenza d’apertura, che precede appena l’enorme scritta rossa in stile sovietico – TATANKA – in sovraimpressione a tutto schermo sulle immagini che seguono. In una realtà geografica e umana come il vasto e infelice territorio compreso tra le province di Napoli e Caserta, dove il film è ambientato, la possibilità di distinguere, di tracciare confini ed erigere muri tra ciò che è sano e ciò che è corrotto – nell’accezione più ampia – è del tutto vana. Marcianise (paese natale di Russo), Villa Literno, Casal di Principe, Aversa, Castel Volturno, sono i nomi di alcuni dei comuni in cui, regnando incontrastata nel nulla politico e civile, l’illegalità è una condizione quotidiana con cui convivere, una realtà data all’interno della quale – e non contro – trovare/creare spazi franchi. Il sano e il corrotto, dunque, che poi immediatamente rimandano al bello e al brutto (il pugno/lo sparo), alla lealtà sì ma a che cosa (la palestra omertosa, che cerca però di fare pulizia da sé al suo interno), al bene e al male, alla bellezza e all’inferno, appunto. Il film, nel prosieguo, non farà che mettere in scena questa sfida – far nascere e crescere un fiore nel deserto – attraverso la parabola esemplare del suo protagonista. Il suo sogno puro di diventare un grande pugile, di gareggiare e vincere alle Olimpiadi, si scontrerà regolarmente con l’azione di forze che lo attrarranno nella direzione opposta: la povertà estrema delle sue origini, le lusinghe e i ricatti della camorra, l’amicizia fraterna con Rosario, che dalla camorra sarà reclutato.

D’altra parte il pugilato, in quanto nobile arte intesa a disciplinare e sublimare l’atto violento, è già di per sé metafora perfetta di questa sfida archetipica. Il cinema lo sa bene, come testimonia la sconfinata filmografia sulla boxe che partendo dagli anni ’20 arriva (giusto per limitarsi alle produzioni più recenti) fino a Corde, napoletanissimo miglior documentario al TFF 2009, e all’americano The Fighter, pluricandidato agli ultimi Oscar. Ed ecco allora il primo dei problemi ineludibili che un film come Tatanka (il soprannome di Russo, “bisonte” in lingua sioux) si trova da subito sulla sua strada: la sua collocazione all’interno di un sottogenere affollato, i cui esemplari, che si chiamino Toro scatenato o Rocky, condividono canoni narrativi consolidati e poco inclini al dinamismo. Per dirla in altri e più brutali termini, Tatanka è l’ennesimo racconto di un tentativo di riscatto di un ultimo, calpestato dal destino e dalla storia, che passa attraverso il ring.

L’altro e ancor più gravoso fardello che questo film non può scansare riguarda il suo rapporto con Gomorra, nel cui solco evidentemente si inscrive, e più in generale con la figura ingombrante di Roberto Saviano. Non deve sorprendere che abbastanza comunemente si senta parlare di Tatanka come del “secondo film di Roberto Saviano”: troppo più grande la dimensione assunta dal 32enne scrittore, qualsiasi opinione in cuor proprio se ne abbia, perché la statura registica di Gagliardi (all’attivo in precedenza solo il misconosciuto La vera leggenda di Tony Vilar) possa reggere il confronto; troppo vivo il ricordo cinematografico di Gomorra, ambientato e girato nelle stesse zone e intriso del medesimo umore, per non sovrapporlo sullo schermo. E si aggiunga, ancora, che dal film di Garrone Tatanka eredita il nucleo forte del reparto-scrittura, cioè il duo Braucci-Gaudioso.

Gagliardi è certamente consapevole di queste condizioni di partenza, a fronte delle quali cerca di far valere i suoi punti di forza: un solido approccio antiretorico a una materia narrativa a rischio, un occhio non banale per i dettagli che fanno analisi antropologica di un territorio – comunque – ricchissimo di storie e personaggi (i match nei centri commerciali e sulla spiaggia, l’episodio della bufala stesa a cazzotti). Ma sa che questo non basta. Punta tutto allora sul suo protagonista-non-attore, Clemente Russo, e sui suoi 90 kg letteralmente pone le fondamenta del film. Indossata una maschera di fiera impassibilità, con cui attraversa ugualmente successi e sventure, Russo assurge a una dimensione tragica di eroe dimesso in lotta con forze più grandi di lui, in un ruolo giusto a metà tra fiction e realtà. Lui, nella vita, è uno che “ce l’ha fatta”, campione mondiale dilettanti e argento olimpico nel 2008, con indosso i colori delle Fiamme Oro. Ma evidentemente la storia di Michele la sente pienamente sua, Michele è la persona che sarebbe potuto essere, al punto che per difenderla fino in fondo si è beccato la sospensione per danno d’immagine dalle Fiamme Oro stesse, che avevano chiesto modifiche a una sceneggiatura evidentemente ritenuta scomoda. Tatanka è Clemente Russo.

Dunque il film di Gagliardi, privo della forza visionaria del Gomorra di Garrone, che per mezzo di essa trascendeva i confini di uno script inevitabilmente già letto, funziona finché si mantiene aggrappato ai muscoli e al sudore del suo protagonista. Ma non va oltre, non trova una cifra pienamente originale che possa affrancarlo dal senso di déjà vu e conferirgli una collocazione autonoma nell’immaginario di chi guarda. Rimane sospeso. Proprio come Michele, che alla fine del film è ancora in cammino verso il ring, in una dimensione che non è più l’inferno, ma certo non può dirsi il paradiso.

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