Soom (Soffio) è un film evanescente, che non rinfresca e scalda come t’aspetti faccia un soffio tempestivo, necessario.

La rappresentazione di una coppia in crisi di comunicazione e di identità, soffocata, assume qui le vesti grottesche, naif e alla fine rassicuranti di un acquerello scolorito.

Il desiderio, la gelosia, la vendetta, il perdono, l’amore e la morte, la carne e lo spirito, le opposizioni e i dualismi cui ci ha abituati il regista non lasciano il segno. Tutti temi, appunto, già ripetutamente affrontati nei suoi precedenti film in modo più efficace e poetico (si pensi alle ferite della carne raccontate ne L’isola, al ciclo dei desideri di Primavera, estate, autunno, inverno…e ancora primavera, al perdono ne La samaritana e all’astrazione magnifica di Ferro 3). Il passare delle stagioni e il bisogno di inventarsi una primavera rigeneratrice dei sensi e di un sentire più vero sono qui ridotti a degli espedienti in cui inserire momenti di umorismo straniato orientale, come anche nel più riuscito Il gusto dell’anguria di Tsai Ming-liang, che spezzano il respiro senza ricomporlo nel suo opposto polo drammatico. Troppo presi a decifrare le immagini non ci si emoziona più.

Manca una storia “seria”, e si sente. Le immagini, metafore continue delle ferite aperte e dei tentativi di superamento della sofferenza (l’angelo con l’ala ripiegata, la tosse secca, la camicia bianca caduta e buttata, per poi essere ripresa alla fine, la ricostruzione delle stagioni nella sala d’incontro del carcere secondo un ciclo interiore tentando di creare un tempo e uno spazio diversi, propri), non stupiscono, né creano attese. Tutto già visto e poco detto, nella convinzione del regista che le parole non servano, basta seguire un segno, magari capovolto, e l’illuminazione, la verità arriverà da sé. Salvo manipolarla da dietro un finto muro d’osservazione (il controllore interpretato dallo stesso regista). Fatto, questo, particolarmente evidente nel finale, in cui l’ultima stagione, l’inverno, viene cantata nell’automobile dalla ricomposta famiglia, prima sommessamente poi con sempre più decisione. Scena che ricorda quella de La stanza del figlio di Nanni Moretti, in cui il padre, la madre e la figlia si ritrovano a cantare Arrivederci amore ciao ma con ben altra intensità, sofferenza e coraggio.

Le immagini scolpite da Kim Ki-duk, regista cattolico, vanno in una strada segnata, in cui l’imprevedibilità della vita sembra costruita a tavolino. La bellezza delle stagioni cantata da Yeon non trasmette empatia, e la disperazione del condannato, Jin, che si toglie ripetutamente il respiro pugnalandosi la gola con uno spazzolino, non riesce a comunicare reale disperazione. In questo senso anche l’amore sensuale vissuto da Yeon con Jin – una scena efficace che lascia il segno – viene violentato dal bacio senza respiro che Yeon gli infligge. Una morte dolce e possessiva, opposizione inseparabile di vita e morte, nella quale Yeon cerca di superare il respiro insufficiente che la fece morire da bambina per cinque secondi. Le relazioni sono quindi vissute come una lotta continua e in cui il finale rassicurante, di conseguenza, suona appiccicato, dogmatico. Strano. Gli orientali hanno visto così tanto Antonioni da averne fatto ormai una maniera. I film di Antonioni, però, hanno un finale con un’immagine quasi sempre aperta, fosse anche un fuoricampo in cui sentire l’ultimo grido.

Kim Ki-duk, a ben vedere, si è sempre diviso tra l’osservazione della società (la Corea del Sud che non ha mai accettato la sua “artisticità” scomoda e che lo ha spinto all’isolamento e all’esilio) e la tendenza verso il mondo dell’astrazione, lo scantonamento verso il simbolico. Dice di sé che a tenerlo in vita è la forza, anzi – subito corregge il tiro – un filo che lo lega al mondo esterno e in cui lui sta lì, appeso a metà. Un filo che, verrebbe da pensare in questo caso, si assottiglia quasi fino a scomparire.

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