[*****] Ancora una volta il regista di Traffic riesce a stupirci con questo suo continuo oscillare fra un film commerciale e uno d’autore, il Che appartiene sicuramente alla seconda categoria, senza per questo escludere un collegamento sotterraneo tra le intenzioni che lo muovono in un campo o nell’altro: lo spazio comune diventa esplicito se ci si sofferma sugli aspetti formali del suo lavoro. Insomma con L’argentino (prima parte) e Guerriglia (seconda parte) ci mette qualcosa di personale, tanto che potrebbe arrivare a dire come Flaubert “Madame Bovary, c’est moi” ovvero “Ernesto Che Guevara , sono io”, non tanto nel senso dell’autobiografia personale quanto dal punto di vista del modo di procedere del leader cubano. Portare al termine un film rassomiglierebbe dunque, per via metaforica, a essere un guerrigliero che lotta per la rivoluzione? In qualche modo sì anche se dobbiamo intenderci sugli obiettivi e la figura del regista dell’indimenticato Sesso, bugie e videotape.

Soderbergh è uno dei più importanti rappresentanti della Hollywood di sinistra (i democratici per intenderci), accanto a lui possiamo mettere George Clooney e Gus Van Sant: alcuni loro film di “impegno” (Milk e Good Night, and Good Luck per fare un esempio) testimoniano la loro provenienza. Quest’appartenenza politica si traduce in una tensione linguistica più o meno accentuata, a seconda della personalità e le capacità artistiche, e in dialettici compromessi con l’industria cinematografica. Con L’argentino prevalgono le ragioni espressive. Il regista è affascinato dalle “sfide pratiche legate alla realizzazione su vasta scala di un’idea politica”. Cerca di “raccontare il processo attraverso il quale un uomo, nato con una volontà di ferro, scopre la capacità di ispirare e guidare gli altri”. Non sono in fondo caratteristiche, quelle che Soderbergh rintraccia nel Che, tipiche di chi si trova a gestire sul set un gruppo di persone? Chi fa un film non affronta “sfide pratiche” per dare forma e quindi concretezza a un’idea? Non si tratta ugualmente di un lavoro quotidiano che comprende dettagli e routine, attese e pazienza, addestramento e azione quando giunge il tempo di agire?

Il rischio di scivolare verso un “biopic” canonico era alto, avrebbe significato percorrere la strada di un romanticismo che riscalda i cuori nell’immediato senza lasciarti nulla una volta usciti dalla sala. Altro è stato invece il percorso intrapreso, puntando l’attenzione su quanto accade giorno dopo giorno in un campo della guerriglia, a quelle “procedure” – dall’addestramento all’educazione dei guerriglieri – noiose e necessarie per raggiungere gli obiettivi, che siano la realizzazione di una scena o l’assalto di una caserma. Il film alterna il primo incontro di Guevara con Fidel Castro a Città del Messico nel 1955, la marcia per arrivare all’Avana durata più due anni, dopo un lungo periodo sulle montagne della Sierra Maestra, e il Che all’Onu nel 1964. Tre parti che corrispondono alla sequenza di lavoro per la realizzazione e diffusione di un’opera cinematografica: la preparazione, le riprese e la promozione con interviste e interventi pubblici dell’autore (anche se Benicio Del Toro al palazzo di vetro di New York rassomiglia più ad una rockstar). Sempre secondo una logica sdrammatizzante, tale da evitare quel crescendo di sentimenti stereotipati tipico delle narrazioni hollywoodiane, la struttura della sceneggiatura scarta le scene obbligate, come l’ingresso nella capitale cubana con il trionfo dei rivoluzionari, ferma il film alle porte dell’Avana con un’immagine morale del Che che ordina ad un combattente di riportare indietro un’auto rubata. In definitiva sembra voler cogliere situazioni piccole e intime: l’eroe è rappresentato subito prima e subito dopo le scene che lo consegnano alla Storia. Dei blocchi di racconto autonomi che non devono per forza di cose annunciare la scena successiva.

A colpire ancor di più di Soderbergh è l’ansia di sperimentare linguisticamente che fa corpo in questo caso con le due parti del Che. Dai riferimenti cinematografici, qualcosa di Salvatore Giuliano di Francesco Rosi per esempio, l’intenzione, poi abbandonata, di girare L’argentino sulle orme di Vivre sa vie di Godard con dodici capitoli distinti, e ancora l’idea, anche questa messa da parte, di iniziare con un ouverture di una serie di scene di poco più di un minuto giustapposte senza alcune ordine cronologico, o l’arrivo a Santa Clara che rimanda ai film di John Sturges. L’uso di una studiata tavolozza di colori da parte del direttore della fotografia Peter Andrews che altri non è che lo stesso Steven Soderbergh, con la predominanza del giallo e del verde (il blu è solo per il cielo), tanto da dare calore alle immagini. All’utilizzo del formato in 16 millimetri a colori per le scene a New York poi virato in bianco e nero, sino all’innovativa macchina da presa digitale ad alta definizione (la Red) con cui sono state girate quasi tutte le quattro ore del film che ha permesso un uso ridottissimo dell’illuminazione artificiale. Insomma un lavorio sottile e intenso, non sempre visibile a occhio nudo, capace di confrontarsi in modo originale con un’epoca in cui il cinema è sotto pressione per i continui cambiamenti introdotti dalle nuove tecnologie, ed è in transizione verso qualcosa di ancora non definito.

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