LA STELLA NEL CARRELLO è uno spettacolo teatrale in scena al Teatro Manhattan di Roma (via del Boschetto 58, metro Cavour) l'8, il 9 e il 10 di aprile alle ore 21. L'opera è scritta e diretta da Giorgia Verri.

Girando per realtà teatrali non ufficiali ci si può imbattere in esperienze decisamente interessanti e per certi aspetti sorprendenti, lontane dal naturalismo e non improntate ad uno sperimentalismo sterile, che spesso distanzia e separa la scena dallo spettatore, ma tese a recuperare al mezzo espressivo teatrale tutte le potenzialità originarie, possibilità non sempre messe a frutto insieme, ma spesso scisse, esibite privilegiando ora l’una ora l’altra componente (e spesso ignorandone molte),  fuori da una reale ricerca di sintesi. Invece, osservando il lavoro sul movimento, l’interazione, la danza e la parola, che si pratica in questi spettacoli, verrebbe quasi da chiedersi se la necessaria povertà di un teatro non istituzionale, non costituisca l’opportunità per favorirne l’ispirazione, costringendolo a rintrecciare tutti i fili essenziali di questa forma d’arte.

È quello che si può sperimentare vedendo lo spettacolo Fiaba n. 9, ospitato per soli tre giorni, durante il periodo di Natale, a Trastevere, ma la cui autrice e regista, Giorgia Verri, sarà di nuovo sulla scena, con un altro spettacolo (La stella nel carrello, dal 7 al 10 aprile al teatro Manathan)  che sarebbe interessante andare a vedere.

La storia di Fiaba n. 9 non è facile da raccontare, perché la narrazione non è lineare, la situazione proposta non è scontatamente decifrabile. La struttura base presenta sul palco tre personaggi: una fanciulla, che all’interno di una struttura fiabesca, a cui il titolo ci richiama, potrebbe rappresentare la bambola, un altro personaggio femminile che le si oppone, scuro e violento, la strega, e un uomo, un apparente giullare, creatura crudele e tentatrice  che si relaziona con entrambe.Lo spettacolo ci presenta l’interazione tra questi personaggi, interazione intensa ed efficace proprio per il ruolo che assume la dimensione teatrale, espressiva dei tre caratteri, già in partenza simbolici:  attraverso l’estremizzazione teatrale delle proprie caratteristiche, quindi attraverso il movimento, la danza, la deformazione e l’esasperazione,  si mette in scena un dramma assai complesso. Non c’è psicologia realistica, i personaggi sono quasi delle maschere, ma, proprio per questo, quanto si va in profondità! Tanto più che sul palco gli attori sono affiancati soltanto  da due sedie e, al centro della scena, un grande bacile d’acqua, con cui tutti e tre, in vario modo, avranno a che fare: scenario apparentemente scarno, ma che i movimenti, le rincorse, la dinamica fisica e tra i personaggi, renderanno vitale, pieno, necessario e non integrabile, non riempibile  di oggetti che sarebbero di troppo.  

Come si è detto, la difficoltà di spiegare la trama non è data, come a volte succede, dall’indecifrabilità e oscurità della rappresentazione, ma al contrario dalla grande quantità di stimoli che arrivano allo spettatore attraverso i canali teatrali sopra accennati: chi scrive ha allora intrecciato in una forma possibile gli elementi proposti sul palco, e la propone non per imbrigliare la visione, ma per confermare la capacità dello spettacolo non solo di evocare, ma anche di costruire senso. Dunque, all’interno di una trama la cui suggestione di fondo è segnata dalla natura dell’incontro uomo-donna, i personaggi femminili (la fanciulla e la strega), sono sembrati rappresentare due momenti, quasi due età della donna, la giovinezza e la maturità, tiranneggiati, governati dall’uomo- giullare, tirannico ed inesorabile come il Tempo (proprio alla fine dello spettacolo il giullare sembra evidentemente ammettere il suo legame con questa metafora: “È tempo di andare. Scorre via anche il tempo stesso, ed io come un secondo son già trascorso… non mi vedrete più…"), che non fa che attrarli ed ingannarli, in maniera subdola, grottesca, lasciva,  fino ad appropriarsi della loro realtà (infatti, sempre nelle ultime scene, il camaleontico giullare giungerà, con un corteggiamento sensuale, a togliere l’infantile tutù alla fanciulla e, con grande sforzo, riuscirà, compiaciuto e soddisfatto, ad indossarlo lui stesso). Le due donne, una quasi eterea, soave, che sembra evocare la purezza, l’ingenuità, l’altra oscura, diabolica, si confrontano indirettamente (anche quando sono sulla stessa scena, nessuna delle due entra mai in contatto con l’altra) e mentre l’una, la giovane partorisce, sempre sotto il costante controllo dell’uomo-giullare, l’altra, sempre con la complicità apparente dell’uomo, si illuderà di poter barattare il bimbo con un rossetto, come se le due realtà, quella della maternità e quella della bellezza, fossero vissute come inconciliabili, opposte come le figure che le rappresentano. A questo proposito, è sembrata davvero bella e opportuna quella specie di danza macabra e liberatoria finale, ballata in circolo, dai tre personaggi proprio sulle note di Vanità di vanità di Branduardi. Nessuna delle due donne vive sul palco un proprio momento di felicità, nella scena non sono mai autonome, ma sono continuamente sollecitate, costrette a difendersi, o all’opposto spinte a complottare, ma in definitiva sempre destinate a  soccombere alle piccole e grandi violenze dell’incontenibile giullare, fin dall’inizio mosso da un’energica ossessione, una specie di volontà distruttiva e fagocitante verso le sue due fanciulle: sul palco è incontenibile, lo sguardo ambiguo e lascivo, i movimenti felpati e sensuali mentre è alla continua ricerca dell’altro (la donna), non per amarla, ma solo per possederla, per appropriarsi della sua vitalità (si veda, in questa direzione, l’emblematico furto del bambino) Ma l’assegnazione dei ruoli che si è appena proposta è, come si diceva, solamente una delle possibili, in quanto la vicenda sembra proporre una rappresentazione simbolica e generale dell’incontro uomo-donna,  capace di comprendere quindi le varie sfaccettature che questo può assumere: amante-amante, certo, ma anche padre-figlia. 

Tutto questo complesso di elementi può apertamente arrivare allo spettatore, grazie ad un lavoro sul palco che valorizza tutto della scena: il piccolo spazio, costantemente occupato, nel senso di vissuto, da parte dei personaggi, perfettamente a proprio agio e capaci di costruire in quello spazio il loro micromondo di riferimento, il loro spazio scenico; il movimento e l’espressività dei corpi, vero canale che trasmette fisicamente, visivamente il legame ossessivo dell’uomo con le due donne; gli oggetti semplici, elementari, ma evocativi e simbolici (l’acqua, il tutù, le scarpe, il rossetto, una pistola). Naturalmente sono gli attori e la regia a rendere efficace e
funzionante un’esperienza teatrale: anche qui di nuovo viene da ribadire quanto detto all’inizio, e cioè che energie e capacità notevoli, si riscontrano in canali non istituzionali: sono infatti Pamela De Biase, Valentina Iannone e Daniel Neri, il fantasmagorico giullare, attraverso un’intesa profonda, un gioco riuscito, un’interazione costruita sul palco attraverso il controllo e la sperimentazione dello spazio e delle relazioni di chi lo riempie, ad avvolgere e stregare lo spettatore.  E dietro di loro è Giorgia Verri, la regista, la cui forza espressiva è costruita non solo attraverso una densa sceneggiatura, ma proprio dalla vitalità e precisione della messa in scena, dal controllo puntuale di tutti gli elementi del palco, dalla capacità di metterli costantemente in relazione tra loro: in definitiva, da una  “rigorosa fantasia”, un’immaginazione che sa trasformare in figure precise, vere, piene e aperte un proprio discorso emotivo.
A chi scrive tutto questo, oggi, nella scena attuale, è sembrato molto, restituendo quel rapporto con la scena  più autentico e stimolante, carico e impegnativo, a volte visto smarrirsi nella rigidità di certi blasonati allestimenti (ben più blasonati). 

 

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