Il Polar , che indica un particolare genere della lettura e del cinema francesi , nasce dalla fusione tra i termini policier (poliziesco) e noir, ed ha una tradizione lunga e gloriosa , il cui nome più significativo filmicamente parlando è stato quello di Jean Pierre Melville e il volto più rappresentativo l’Alain Delon a cavallo tra la fine degli anni ’60 e i primi anni ’70 ( proprio con Melville realizzò una memorabile trilogia crepuscolare sul mondo della malavita e i suoi codici sotterranei : Frank Costello, faccia d’angelo, I senza nome e Notte sulla città).

Anche Claude Chabrol lo frequentò, adattandolo a un coté più medio e piccolo borghese e con venature decisamente tendenti verso il thriller ( tra la sterminata filmografia, basti citare Stephane, una moglie infedele e il tagliagole) , senza dimenticare un cineasta attento alle dinamiche psicologiche più sottili e all’atmosfere più struggenti, quasi da melò, come Claude Miller ( Guardato a vista, con una Romy Schneider di struggente e malinconica bellezza, e Mia dolce assassina , dove c’è un ancora selvaggia e carnale Isabelle Adjani).

Catapultati in questo  faticoso e plumbeo 2020, in un momento in cui la sala cinematografica è sull’orlo di un baratro senza ritorno, e frequentarla diventa un vero e proprio atto di resistenza, abbiamo la possibilità di riprendere confidenza o, ancora di più, di immergerci verticalmente, visceralmente dentro un universo rarefatto,  che coniuga il piacere dell’indagine e dello scioglimento del whodunnit (chi è il colpevole?) con l’esplorazione delle zone oscure della psiche e del cuore:  questo viaggio , per il quale ci sentiamo di  dire subito un chiaro e forte grazie, si chiama Roubaix, una luce nell’ombra e  lo dobbiamo ad un autore (altra parola  demodè quasi quanto il cinema in sala, ma che qui vogliamo continuare a difendere) come Arnaud Desplechin. Inizialmente, visti i trascorsi del nome in questione, è un ‘opera che appare  un po’ spiazzante  anche se in realtà, nella transumanza post  moderna in cui si colloca buona parte della sua filmografia, alcuni titoli potrebbero ben meritare la definizione estesa di thriller , visto che c’è sempre un elemento di ricostruzione di senso, a partire da un trauma (separazione, lutto, malattia).

Al centro c’è comunque la relazione, anzi le relazioni e il loro intrecciarsi nello spazio e nel tempo: ne è una summa esemplare I re e la regina , con Emmanuelle Devos alle prese con gli uomini del suo passato-presente-futuro, senza rinunciare al piano di un immaginario alimentato dal desiderio e contaminato dal senso di colpa, nei non luoghi di una riconciliazione impossibile con il padre del figlio morto suicida per impulso e passione indotti dalla sua ingenua e perversa “sovrana”,  o con le parole amare e rancorose di un padre divorato internamente dal cancro e da un odio che dura come un’ impronta sul corpo. E c’è altresì la possibilità di reinventarsi creativamente, di cambiare la direzione di una storia e di un incontro, come Mathieu Amalric,  l’ex marito eccessivo e geniale rinchiuso in manicomio, con quel volto e quel corpo cosi unconventional  nella sequenza dell’impossibile e umanissima coreografia hip-hip.

Un prologo necessario per introdurre un film a sua volta concepito come trasposizione di un documentario, Roubaix, commissariat central , che rispetta l’impianto realista nella descrizione della periferia marginale e violenta della cittadina francese e in particolare riprende un caso di cronaca nera con cui Arnaud deve aver trovato risonanze nella sua sensibilità di uomo,  narratore e cineasta.

Fin da subito Desplechin non tradisce se stesso, la sua tensione anche estetica verso una forma che sposta la superficie della realtà in una zona più intimista, profonda, assoluta, in cui ogni personaggio viene liberato dalla  funzione che ha nel racconto  e dall’inquadramento/inquadratura in un cliché per esprimere una singolarità ed un mistero. Qualcosa che rimane indeterminato, e che in questa indeterminatezza sentiamo che ci coinvolge e ci riguarda.

Su un tappetto di suoni urbani, si stacca in rosso il titolo che, come il documentario da cui prende spunto, mantiene il nome del luogo, Roubaix, e lo accosta alla parola “lumiere” (il sempre prosaico titolista italiano traduce “una luce nell’ombra”) …. una luce, lo sguardo cinematografico che va a illuminare e svelare una storia che rimarrebbe inascoltata e anonima. Infatti, dietro quella scritta che si definisce e si impone , si legge dietro, in grigio, il sottotitolo “Oh, Mercy” , un ringraziamento, già enunciato nell’impatto grafico,e rivolto ad un ascolto, un’accoglienza, una comprensione.

Questa attitudine, che è anche una pratica, si incarna qui, come spesso accade nei Polar,  nel personaggio dell’ispettore di polizia , interpretato con una sommessa ma vibrante vicinanza da Roschdy Zem , sulla scia  di un Jean Gabin o di un Lino Ventura immersi nelle nevrosi contemporanee.

La visione dell’ispettore ha la stesso respiro della regia di Desplechin, che focalizza e non riduce, osserva e non giudica ,interpreta e non prende alla lettera gli eventi e nello specifico  l’evento intorno a cui il racconto, dopo la parte iniziale più corale ed episodica per presentare il contesto del commissariato, si concentra: l’uccisione di una donna anziana, derubata e strangolata in casa, con una possibile aggravante di futilità e gratuità visto il poco valore della furtiva; ed è quando entrano in scena le due presunte colpevoli , Claude e Marie che, sempre attraverso il volto segnato eppure tenero dell’attore Zem, Desplechin stabilisce un contatto di umanissima profondità e delicatezza, lontano dalla morbosità e dall’effetto di un articolo da rotocalco , come dal piattume monocorde e routinario di un verbale. Queste due emarginate, tossicodipendenti, ladre per alimentare la loro dipendenza ,ancorate ad un istantaneo qui ed ora senza orizzonte, che applicano  l’inganno e la manipolazione su chi è ancora più fragile nel brutale microcosmo sociale in cui sono state abbandonate, non vengono solo scoperte nel  disastroso piano di depistamento ( prima negano, poi indicano il pusher del quartiere come responsabile, infine si accusano a vicenda) ;  in un denso e sempre più stringente clima di realismo psicologico, si dirama la dinamica di potere  dell’ una nei confronti dell’altra , un falso incontro tra due ferite – l’impossibilità di amare e di uscire da se stessa di Claude ( Lea Seydoux , in una variazione disperata e borderline de la Emma di La vita di Adele) e la dipendenza emotiva e psicologica , l’incapacità di autodeterminazione che si converte in un’ottusa , feroce azione per Marie ( Sara Forestier, tra vulnerabile smarrimento e caparbia resistenza alla verità, sua e altrui) .

Due ferite dicevamo, che non si curano reciprocamente ma ne generano una terza, concreta e tattile, come i segni sul collo della vecchia vicina di casa, probabilmente generosa e spontanea nell’aprirsi maternamente a quelle spaurite e fragili outisiders;  troveranno , se non la catarsi  , quanto meno l’espressione  contro la rimozione, grazie alla confessione/racconto/rappresentazione all’ispettore empaticamente  preparato, in un tutt’uno tra vita e mestiere, a sopportare qualsiasi verità, anche la più scomoda.

Come accadeva allo skater protagonista di Paranoid Park di Gus Van Sant, che affidava alle parole, tramite  un diario e  la sua voce off, la presa di coscienza rispetto ad una morte di cui era stato involontario responsabile, anche per Claude e Marie la verbalizzazione , non più monologo ma dialogo, è lo strumento per rompere uno schema, un incastro, la condanna e la stigmatizzazione ad un’esistenza di vendetta e di rivendicazione.

Nella sequenza straziante eppure cosi ricca di pudore e pietas in cui il commissario porta le ragazze sul luogo del delitto e fa loro simulare tutta la sequenza di azioni e di conversazioni  culminate nell’omicidio, il chiarimento, la luce, non cade solo sui fatti ma c’è un epifania in progress, una rivelazione della natura di quel legame e del mondo in cui vi si (con)formano le identità singole di entrambe.

E la chiave di accesso, per Desplechin, è sempre la stessa: evocare i fantasmi, l’  “Elephant” nel soggiorno della nostra  mente tarata  e farci i conti, tra il sublime e il miserrimo, l’illusione e il disincanto, l’affabulazione e lo smascheramento.

 

 

 

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